di Leonardo Caponi
L'11 SETTEMBRE DI TANTI ANNI FA
Il 12 settembre del 1973 il Direttivo della Federazione del Pci di Perugia fu convocato in tutta urgenza, per discutere del colpo di stato in Cile del giorno precedente. Il generale fellone Pinochet, al soldo dei nordamericani e della borghesia cilena, aveva assaltato il palazzo presidenziale e ucciso il Presidente legittimo socialista Salvador Allende che, a capo di una coalizione socialcomunista e democratica, aveva avviato una grande stagione di emancipazione e riforme sociali ed economiche a favore del popolo. In Parlamento Allende aveva una maggioranza relativa di voti che lo costringeva a una accorta tattica politica.
Ero entrato nel Direttivo federale da poco, dopo il '68 a 24 anni, come giovane quadro sul quale il Pci aveva scommesso per farlo diventare un "rivoluzionario di professione". Ci fu, come in tutti i direttivi d'Italia, una discussione drammatica. Dopo una relazione, non ricordo se meno sonnacchiosa e incomprensibile del solito del Segretario Gianpaolo Bartolini, si confrontarono aspramente due tesi. La prima, che sarebbe poi divenuta la linea ufficiale del partito, condivisa da una maggioranza del Direttivo che faceva capo ai berlingueriani di Pietro Conti, Presidente della Regione,. sosteneva che Allende, vista la mala parata, avrebbe dovuto cercare un accordo con la Dc cilena (l'origine del compromesso storico). Gli ingraiani Mandarini e Rasimelli, con Germano Marri e i filosovietici, sostenevano che comunisti e socialisti vista ormai la insostenibilitá della situazione (il Paese era nel caos provato da una serie infinita di attentati e sabotaggi fascisti), avrebbero dovuto preparare un'insurrezione popolare. Questa posizione era vicina, se non comune, ai giovani della sinistra extraparlamentare. "É una via tentata in altri Paesi dell'America latina e fallita", rispose l'inviato della Direzione dimenticando Cuba, mentre io, col senno di poi anni dopo, capii che la vis polemica di Ilvano, Mandarini e Marri era anche rivolta a destabilizzare la presidenza Conti.
Ricordo, due o tre giorni dopo, una straordinaria manifestazione di solidarietá al popolo cileno in una Sala dei Notari piena all'inverosimile dove Luis Guastalvino membro in esilio della Direzione del Pc cileno, tenne un indimenticabile discorso in lingua spagnola. La folla si infiammò quando parlò "de el rojo de sangre de pueblo" che aveva macchiato la bandiera del suo Paese. Fui molto orgoglioso quando poco prima di iniziare fui avvicinato da Pietro Conti che mi chiese di ricordagli il "nome di quel prete" che avevo citato alla riunione del Direttivo. Era don Camillo Torres, uno dei sacerdoti guerriglieri della Teologia della Liberazione.
Vedo che ancora oggi si discute della fine del Presidente Allende. C' é chi lo immagina nel consegnarsi orgoglioso, indomito ma inerme, ai colpi dei carnefici golpisti, chi lo racconta, come fece Fidel Castro a L'Avana una settimana dopo con un'immagine che fece il giro del mondo, mentre col mitra in pugno combatte con i fedelissimi fino a cadere colpito dai traditori. É un segreto che il il Palazzo della Moneda conserverá per sempre, insieme a quello, indelebile, del Companero Presidente.
 

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