di Astolfo Lupia.

L’inizio della fine fu nel novembre dell’ottantanove. Il muro che divideva Berlino all’improvviso smise di essere quell’ostacolo insuperabile e formidabile che teneva separati gli abitanti delle due metà della antica capitale di Germania e allo stesso tempo era il confine simbolico non meno che materiale tra i due sistemi che nell’epoca bipolare si contendevano l’egemonia mondiale. In un effetto domino incontrollato e probabilmente incontrollabile nel giro di qualche anno tutto ciò che stava al di là della cortina di ferro, il mondo del cosiddetto “socialismo reale” venne giù come un gigantesco castello di carte: era la fine di un sistema economico e politico, di istituzioni, governi, e non solo. Fu necessario riscrivere a fondo gli atlanti: cadeva un Impero, quello sovietico, e dalla sua scomposizione nascevano stati nuovi coi nomi antichi o esotici. Nell’immane sconvolgimento che accadde in una manciata di anni e che causò anche conflitti ferocissimi si disarticolò il calcio in quei paesi, e non poteva essere altrimenti. Vecchie e gloriose nazionali sparirono da un giorno all’altro; club famosi e carichi di tradizione persero molta della loro forza in conseguenza dello sconquasso successivo allo smembramento del sistema. Il compito che Belli e Piccinelli si propongono nel loro Calcio e martello è quello di rendere omaggio, riportare alla memoria i fasti dimenticati di quei movimenti calcistici che, pur strutturati in maniera differente dal professionismo in vigore nei paesi capitalistici, riuscirono a raggiungere risultati ragguardevoli nelle competizioni cui parteciparono, tanto a livello di club che di selezioni nazionali. E ciò perché sin da subito i vertici dei partiti comunisti si resero conto dell’importanza di questo sport. Nell’Unione sovietica sin dal 1924 al calcio venne conferita la dignità di pratica addestrativa della Armata Rossa, in ragione del suo essere “gioco collettivo che educa lo spirito di gruppo”. Una strategia, forse tra le meno cruente, tese a forgiare l’uomo nuovo sovietico. Con gli autori rammentiamo anche noi, per averne letto e visto filmati d’epoca, la gloriosa nazionale magiara del 1954, sconfitta in finale da una Germania Occidentale già battuta sonoramente nella fase a gironi. Su quella vittoria grava ancora a distanza di tre quarti di secolo l’ombra del doping. O ancora la fantastica e perfetta macchina da guerra approntata dal leggendario colonnello Lobanowsky nell’ottantasei, fermata solo da un arbitraggio vistosamente ostile contro il Belgio. Dalle due vicende appena segnalate è ragionevole dedurre che il computo delle vittorie delle squadre del patto di Varsavia è stato almeno ridimensionato dalla non sempre equanime disposizione degli arbitri nei loro confronti. In tempi a noi più vicini serbiamo ancora memoria nitida del Brasile dei Balcani, la fantasmagorica Jugoslavia, ricca di talenti tanto cristallini quanto anarchici e indocili. O ancora la arcigna Cecoslovacchia, campione d’Europa nel 76 e nostra storica bestia nera. La carrellata si arricchisce dei ritratti dei tanti fenomeni e delle loro vicende biografiche. Tra tutte spicca quella di Streltsov, il Pelé sovietico che venne escluso dal mondiale del 58 e consegnato al famigerato carcere di Butirka da uno dei tanti imperscrutabili ed inappellabili decreti della dirigenza sovietica. O ancora il Vratar (portiere) per eccellenza, Lev Yascin , il Ragno Nero, unico nel suo ruolo a vincere il Pallone d’Oro. Un posto a parte merita la sezione di comunisti in partibus infidelium; di quei calciatori che in paesi capitalistici o peggio ancora in regimi dittatoriali professarono apertamente il loro credo politico. Tale è il caso di Socrates, il cui nome completo occuperebbe uno spazio considerevole, che assieme ai coraggiosi compagni di squadra del Corinthians diede inizio alla esperienza della cosiddetta Democrazia Corinthiana. Di lui, scomparso qualche anno fa, resta l’aneddoto per cui avrebbe accettato il trasferimento in Italia, alla Fiorentina, per potere tranquillamente studiare Gramsci in lingua originale. C’è spazio anche per il nostro Paolo Sollier, indimenticato protagonista nel Perugia di metà anni settanta; per il capelluto Breitner che passò dalla militanza maoista alla pubblicità di un noto dopobarba: potenza del denaro o venti del riflusso? Il filo della narrazione scorre agile, sciolto, nell’evocare fatti e personaggi di un mondo che pare oggi lontano anni luce. Non esita però a intrecciare la storia minore, quella del calcio, con quell’altra Storia, quella con maiuscola. Si misura felicemente con la rievocazione di eventi che storici furono senz’altro. E’ così con la partita che nel mondiale del 74 oppose le due Germanie: gli occidentali vinsero il mondiale, contro la scoppiettante Olanda del calcio totale. In quella partita però furono i cugini poveri dell’est ad avere la meglio con il gol di Sparwasser; i capitalisti dell’ovest vinsero la guerra, ma la memoria di quella epica battaglia resta consegnata alla leggenda. O anche con la sfida tra Hajduk e Stella Rossa del 4 maggio del 1980, derby ad altro tasso di tensione, non solo calcistica, tra serbi e croati. A pochi minuti dalla fine del primo tempo la partita viene interrotta dall’ingresso in campo di alcuni agenti. Nessuno riesce a capire quel che sta accadendo, le versioni più varie si accavallano fervidamente, finché il presidente della squadra ospitante dà l’annuncio che rompe la sospensione surreale che è calata sullo stadio: il colonnello Tito è morto. Zlatko Vujovic, indimenticato guerriero e capitano dello Hajduk, si accascia a terra e inizia a piangere, seguito ben presto da avversari e compagni, dallo stesso arbitro. “Compagno Tito, non ti tradiremo, dalla tua strada non devieremo” canta come un sol uomo quello stadio. I tragici e orrendi fatti di qualche anno dopo si incaricheranno di smentire questa solenne promessa: forse quel giorno finì la Jugoslavia.

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