di Antonello Tacconi.

Non c’è più gioventù nata per correre in Bruce Springsteen e nemmeno Mary può essere invitata a solcare le Thunder Road di un tempo. Springsteen si ricorda di essere entrato nell’autunno della sua esistenza e permea di tale spirito un disco dove l’affrontare le rughe del tempo, la malinconia e il ricordo sono il filo conduttore che unisce i singoli episodi. E seppur Bruce richiama i fidi compagni di sempre della E Street Band a dare vigore ai suoi pensieri, tale sensazione di nostalgia e paradossalmente un sottilissimo velo di tristezza rimane come sfondo di tutto il disco anche quando la E Street Band sfodera il suo riconoscibilissimo marchio musicale di fabbrica.

E se il nostro ripesca dal suo passato tre “quasi “inediti” che risultano organici al resto dei nuovi brani (“Janey needs a shooter”; If i was a priest” e “Song for orphans”), solo “entrando” dentro i testi delle canzoni del disco. ci si accorge, del tema del tempo, dei ricordi degli amici scomparsi, del trascorrere degli anni e di una stagione della vita che non tornerà più.

Pronti e via con “One minute you’re here” che sembra uscita dalle sessions del precedente Western Stars per arrangiamenti e spirito. Solo con chitarra e voce Springsteen affronta subito la paura della perdita e della caducità delle esistenze (“Lascio il mio penny sui binari. Mentre il vento estivo canta la sua ultima canzone. Un minuto sei qui. Il minuto dopo non ci sei più”). Con il brano omonimo del disco, “Letter to You”, la E Street Band entra in scena con il suo classico “wall of sound” che l’ha da sempre contraddistinta. Bruce canta con rinnovato vigore e il brano diventa una sorta di confessione – testamento su quello che un uomo è stato al declinare di una esistenza. (“Le cose che ho trovato attraverso i tempi difficili e buoni, le ho scritte tutte con inchiostro e sangue. Ho scavato nel profondo della mia anima e ho firmato col mio nome vero. E l’ho inviato nella mia lettera a te”). Nemmeno il tempo di riprendersi che “Burnin’ Train” ribadisce ancora meglio le coordinate musicali Springsteen e i soci: una cavalcata sonora al ritmo di un “treno di fuoco” di una promessa di un viaggio senza ritorno, ovvero una tematica che nelle liriche d Springsteen ritorna con vari accenti. Con la sola differenza che qui siamo a fine corsa, in un viaggio della vita di sola andata.

Si arriva poi al primo recupero dal passato di Springsteen con “Janey Needs a Shooter” che in realtà fu un prestito fatto al cantautore - amico Warren Zevon. Springsteen si “riprende” il brano e gli cuce addosso una veste del tutto inedita, con un abito formato E-Street Band che, pur lontano anni luce dalla versione dello stesso Zevon, la fa risplendere di una luce nuova. Stesso discorso può essere fatto per la seconda traccia ripresa dal passato, ovvero quella Song of Orphans messa quasi a chiusura del disco e con echi musicali che rimandano quasi al miglior Dylan di un tempo. Dei cosiddetti “tesori” seminascosti che Springsteen piazza in mezzo agli inediti di questo nuovo album; per “If i was a priest” va fatto un discorso a parte. Il brano che qui l’uomo del New Jersey ci regala, riesce a riconsegnarci un piccolo capolavoro fatto di un cantato in crescendo forse come mai Bruce aveva fatto negli ultimi tempi, dove soul, rhythm & blues e gospel si mescolano in un crescendo che risulta emozionante e, a nostro parere, più incisivo rispetto l’originale e suggestiva versione pianoforte e voce. Se queste tre gemme del passato splendono incastonate, il resto dell’album ci regala ancora quadri di un trascorso di vita, dove i ricordi affiorano prepotenti. Una di queste, “Last Man Standing”, è una delle più autobiografiche dell’album. Dopo la morte di George Theiss, suo compagno nella prima band dei Castiles, con il quale suonava nei locali del New Jersey, Springsteen ha scritto di getto questa canzone nella quale i ricordi delle sere passate nei locali nelle prime esibizioni dal vivo, lasciano il passo alla consapevolezza di essere adesso l’ultimo sopravvissuto di una epoca passata. Quasi un ultimo custode della “sacra fiamma” di un certo modo di intendere il rock. I ricordi poi scorrono tra i momenti spensierati (“The Power of Prayer”) di una serata dove la voce di Benny E. King fa da sottofondo ad un altro brano denso di emozioni fatte di musica, sentimenti e ricordi di gioventù.

Il ricordo…. Sì, proprio il ricordo, che affiora dai fantasmi del suo passato in Ghost. Ma qui il tema della presenza della morte non è descritto nel senso più negativo, ma quasi con la certezza di avere al fianco delle “presenze” positive che sembrano sostenere se non accompagnare l’artista; come lui stesso ha ammesso in una recente intervista.

E se poi tutto deve finire, allora Springsteen continua a dire che nulla in fondo finisce, disegnando sulla Terra una sua personale idea di paradiso in una “House of a Thousand Guitars” dove c’è il desiderio di ritrovare gli amici perduti di un tempo alla fine della corsa.

Solo un brano, The Rainmaker, ci dice che il Nostro non è del tutto estraneo ai tempi che corrono e all’attualità di un mondo fatto di inganni, prevaricazioni e falsi profeti. Ed anche musicalmente il pezzo si stacca dal resto, risultando il meno legato al continuum del disco.

Per poi nel finale subito riannodare il discorso interrotto con una “I’ll see you in my dreams” che ribadisce come Letter to You sia l’album dove, forse per la prima volta nella sua esistenza, Bruce Frederick Springsteen di Freehold si sia confrontato con la mortalità e con l’urgenza di dire tutto e di lasciare qualcosa di più profondo in tempi così precari per quello che stiamo affrontando. Una urgenza che si è tradotta nel richiamare gli amici di sempre e incidere senza nessun demo un album in presa diretta ed in soli cinque giorni. Il risultato è questa “lettera” indirizzata a tutti noi. Per ricordare quello che in fondo, nelle stagioni della vita, ognuno sta affrontando o dovrà prima o poi fare i conti; ovvero con il tempo che scorre e ci avvicina al capolinea di ogni nostra esistenza.

Ma non è un messaggio senza speranza quello contenuto in questo Letter To You. Anzi paradossalmente, dietro alle mascherine che ognuno ora è costretto ad indossare, senza nemmeno poter quasi più esternare alcuna emozione, quasi che la pandemia stia uccidendo la prima dimensione comunicativa emozionale del contatto corporeo e del nostro essere, “Letter to You” può diventare una calda “coperta” musicale dell’anima con la quale affrontare, con rinnovata speranza e fiducia, questo lungo inverno delle nostre esistenze.

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