di Maria Pellegrini.

In ogni epoca e in ogni parte del mondo, ma soprattutto nei nostri tempi, sono presenti personaggi intriganti, arrampicatori sociali, corrotti o corruttori, pervasi dalla smania di emergere senza sforzo, ma con la protezione di qualcuno. Questa riflessione mi ha ricordato una satira di Orazio, la IX del libro I, dove è descritto una vicenda biografia dell’autore assillato durante una passeggiata solitaria da un seccatore in cerca di appoggi per entrare nel prestigioso circolo di Mecenate. La poesia di Orazio ha molte corde, le quali vibrano con un tono mai assordante e mai sgradevolmente aggressivo. Quel tono è fondato sulla “misura”, cioè sull’equilibrio, dote importante, secondo Orazio, per ogni attività umana. Contemplando il mondo che lo circonda e i difetti degli uomini, le loro follie e fragilità, il poeta ne coglie il lato ridicolo sorridendo e facendo sorridere, tratteggiando una vasta galleria di tipi e di situazioni con un respiro di saggezza e di buon senso. Questa “misura” viene rispettata anche quando si fa beffe del poetastro ambizioso che disturba la sua passeggiata lungo la via Sacra, insistendo con la pretesa di essere presentato a Mecenate e far carriera, grazie al favore di questo potente personaggio.
Leggiamo insieme qualche passaggio della satira. Nell’incipit il poeta ci pone subito di fronte alla scena, “in medias res”, come si usa dire:
«Me ne andavo a passeggio per la via Sacra, come spesso mi accade / assorto in non so più quali pensieri e tutto preso da quelli, / quando mi piomba addosso un tale che conosco soltanto di nome. / “Carissimo, come stai?” mi dice afferrandomi la mano».
Nonostante la cortesia con la quale il malcapitato risponde al saluto, il seccatore continua a seguirlo, a importunarlo con un incalzare di domande. Si presenta come un poeta, dunque crede di meritare attenzione, parla a ruota libera, ma Orazio comincia a sudare freddo, accelera il passo poi rimane in silenzio.
Questo atteggiamento dà all’uomo l’occasione per esclamare: «Sei disperato, hai voglia di andartene, da un pezzo / l’ho capito ma non ti lascerò andare, ti starò alle calcagna». Il poeta cerca di dissuaderlo adducendo come scusa che è indaffarato e per questo accelera il passo, poi confessa il motivo di tanta fretta: deve andare da un amico che abita lontano ed è malato. Pronta è la risposta di quell’impudente: «Non ho niente da fare e poi non sono pigro, verrò con te».
Allo sconsolato Orazio non rimane che rassegnarsi «come un asino quando gli caricano sulla groppa un grosso peso». Il seccatore sente di aver vinto la diffidenza del poeta e comincia a parlare di se stesso, della qualità dei suoi versi, sicuramente migliori di quelli di altri che sono ingiustamente apprezzati più di lui. Aggiunge che sa cantare, danzare, come pochi. Il poeta comincia a innervosirsi e fa una battuta per scoraggiarlo: «Non hai una madre, altri parenti cui interessi la tua salute?» Ma ottiene una risposta disarmante: «Non ho più nessuno: li ho sepolti tutti» cui sconsolato Orazio risponde: «O fortunati. Resto solo io».
Con ironia il poeta riferisce al lettore di aver avuto in gioventù una profezia da una fattucchiera: sarebbe morto a causa di un chiacchierone, e tale premonizione sembra ora  avverarsi.
Il cammino prosegue ed entrambi affiancati giungono al tempo di Vesta, all’estremità del Foro, vicino al tribunale del pretore: c’è per Orazio una speranza di salvezza quando quell’importuno si ricorda che deve presentarsi in tribunale ma non vuole andarci da solo, chiede all’occasionale amico di seguirlo. Di fronte alla risposta negativa, sceglie di rinunciare alla causa. Si scoprono allora le sue vere intenzioni: vuole essere presentato a Mecenate. Orazio lo incoraggia, ma per raggiungere l’obiettivo deve aver costanza e impegnarsi per rendersi all’altezza di tale onore; in risposta il poetastro cinicamente esclama di arrivarci con altri mezzi: «Mi darò da fare, corromperò i servi con regali; /né mi darò per vinto: se oggi mi chiuderanno la porta / cercherò altre occasioni, farò in modo di incontrarlo ai crocicchi».
La risposta, sconcertante agli occhi del poeta, mostra la contrapposizione del sistema di valori dei due dialoganti: da un lato c’è aggressività, mentalità gretta, arrivismo sociale, ambizione, dall’altra serietà,  valori etici. «I rapporti con Mecenate non sono come tu pensi. / Nessuna casa è più candida di quella, né più lontana da simili intrighi», ribatte il poeta. Queste parole sono la più bella testimonianza dell’atmosfera che regna nel circolo di Mecenate: i rapporti - che poi si mutano in amicizia - intrecciati con intellettuali e poeti come Virgilio, Orazio, Properzio (ma anche altri di cui non si sono conservate le opere come Quintilio Varo, Domizio Marso, Plozio Tucca, Vario Rufo) sono improntati a sincerità, correttezza, rispetto, gratitudine non a intrighi di bassa lega.
Il seccatore non si lascia per nulla turbare da quelle sagge considerazioni pronunciate dal poeta e prosegue nel suo tentativo di raggiungere lo scopo. Sulla strada compare all’improvviso Aristio Fusco, un amico carissimo, commediografo e grammatico al quale Orazio cerca di far capire la situazione: «Comincio a tirarlo per la veste e a cercare di afferrare con la mano / quelle sue braccia inerti, facendogli segni, storcendo gli occhi / perché mi cavasse d'impaccio. E lui ride, fa il tonto, / finge di non capire; a me intanto la bile mi mangiava il fegato». Allora tenta ancora una via d’uscita e rivolto all’amico: «Se non sbaglio, volevi dirmi qualcosa a quattr'occhi», ma quello imperterrito: «Sì è vero, ma te la dirò in un momento più adatto …/ Perdonami, te ne parlerò un'altra volta». Quel furfante scappa e lo lascia alla mercé del suo persecutore. «Che giornata nera doveva capitarmi!», esclama tra sé.
Tuttavia presto si libererà di lui che fortunatamente è trascinato in tribunale da un suo avversario, apparso quasi d’incanto sulla scena. Il poeta è dunque libero e può tornare alle sue meditazioni, ciò - dice il poeta - è avvenuto per un intervento divino, quello del dio della poesia: «È così che Apollo mi ha salvato».
Chiunque legga questa satira non può fare a meno di notare la freschezza e la spontaneità del dialogo che si intreccia tra i due protagonisti, opposti negli ideali di vita e nel carattere. La bonaria ironia del poeta non si muta in acre indignazione, né mostra aperti intenti moralistici, ma puntualizza un principio: non è la fortuna a facilitare la scalata sociale, il successo, ma la propria “virtus”, cioè i meriti personali.

L’amicizia tra Orazio e Mecenate sembra quasi segnata da un destino comune moriranno nello stesso anno, il primo nel novembre dell’8 a. C. all’età di 57 anni, l’altro  due mesi prima. Entrambi saranno sepolti uno accanto all’altro sul colle Esquilino.
Nel comporre le satire Orazio ha tenuto fede al titolo latino della raccolta “Sermones”, che ha il significato di “conversazioni”, che risultano, come si vede in questa narrazione biografica, pittoresche e vivaci, con uno stile che sa assumere di volta in volta il tono familiare o esigente, bonario o ironico, felicemente disinvolto e sorridente, con un’inclinazione al realismo descrittivo.
Vero messaggio morale della sua poesia può essere considerato il precetto “in medio stat virtus”, che non deve tuttavia essere considerato un invito all’opportunismo, ma come dovere dell’equilibrio morale e intellettuale basato sul senso della misura (“est modus in rebus”) contro ogni forma di fanatismo.

Nota: nell’immagine il busto di Orazio situato nella villa Borghese a Roma

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