di Antonello Tacconi

 

Tanti anni fa, il famoso giornalista e critico musicale americano, Greil Marcus, tra i rivoli dei fiumi di inchiostro in forma di libri che ha dedicato al Nostro, scrisse che Bob Dylan fosse “…una rappresentazione dell’antica maschera americana”.

E proprio nei giorni scorsi dove Dylan ha tagliato il traguardo delle ottanta candeline, alcune riflessioni premono di essere condivise, proprio partendo dal concetto, fino ad un certo punto simbolico, di “maschera”.

Perché forse, parlando di un uomo che ha influenzato non solo la musica ma anche la cultura del precedente secolo come di quello attuale, è lecito chiedersi quale sia stato il vero volto di Bob Dylan. O meglio, quale sia stata la maschera da lui indossata o imposta dai tempi e dalle mode che lo ritragga realmente. E, allo stesso tempo, ci si deve chiedere proprio perché nel momento in cui la sua arte e la sua musica sembravano incanalarlo verso una precisa collocazione da tramandare ai posteri, il buon Robert Zimmermann abbia schivato qualsiasi cliché, abito o maschera che sia per indossarne repentinamente uno nuovo che spesso lasciava i suoi estimatori a dir poco esterrefatti di fronte ad una sorta di trasfigurazione di sé stesso che attraversato con straordinaria verità decadi su decadi.

Ma la domanda, forse la più importante che riassume tutte le precedente, è quella di chiedersi chi o che cosa sia davvero stato Bob Dylan o, meglio ancora, quanti Bob Dylan in realtà siano esistiti.

Ed allora questo ragionamento che si vuole qui condividere deve per forza partire per un viaggio nel suo mondo e nella sua arte che dura da più di mezzo secolo.

Ma prima di farlo, una prima considerazione va subito fatta. Vale a dire che forse mai con Bob Dylan l’arte da lui espressa abbia travalicato il mezzo principale di trasmissione, ovvero la musica, per divenire arte a tutto tondo, modello culturale e letterario, non solo americano ma mondiale. Anzi una vera e propria voce del Novecento che poi è entrata nel nuovo millennio scrutandolo ancora con la sua personalissima lente di ingrandimento fino ai nostri giorni, fino al recente e acclamato “Rough and Rowdy Ways”, uscito nel giugno dello scorso anno.

Ma ritorniamo alle tante maschere o, se vi piace, ai volti che il nostro ha fatto mostra, partendo da quel ragazzino che nel gennaio del 1961, non ancora ventenne, arriva a New York e, a dispetto della sua giovane età, sembra a portare con sé la saggezza dei vecchi cantastorie della tradizione americana a metà tra folk e blues, seguendo quel percorso che il suo punto di riferimento Whoody Guthrie aveva in precedenza tracciato e battuto. E quello che sorprende di come il non ancora ventenne Dylan abbia già tante cose da dire, da raccontare e una cultura letteraria che fa dei suoi testi un concentrato di citazioni e di rimandi. Quasi, ci si chiede, come si possa trovare tanta profondità, cultura e conoscenza in questo giovane Dylan che dalla sua Duluth nel Minnesota vede nella Grande Mela e nel Greenwich Village così denso di musicisti, poeti ed artisti di ogni genere, il suo naturale approdo. Ma prima di iniziare, vien da sé che il Nostro farà una visita al Greystone Hospital per andare a trovare il suo vecchio folksinger, quel Woody Guthrie oramai morente al quale il giovane Bob suona la chitarra e canta di fronte al suo letto d’ospedale. Una sorta di passaggio di consegne, una specie di rito di investitura e poi via; alla conquista del Village e del mondo intero. Ecco la prima “maschera” del giovane Bob, quello che con il folk e la sua chitarra porta con se tutto il peso della tradizione musicale americana. Quella, tanto per intenderci, che affonda le sue radici sia nelle canzoni dello stesso Gutrhie ma anche di tanti altri semisconosciuti nomi che popolano la notte dei tempi e che molti si possono ritrovare nella corposa raccolta del’Anthology of American Folk Music (1926-1933). Una sorta di bibbia della storia del folk, del country e del blues delle origini e risalente al 1952, creata dal produttore Harry Smith.  Colui che disse di Dylan queste parole “Quando sentii Bob Dylan alla radio riuscii veramente a credere in Dio”. Ma questa è un’altra storia.

Insomma il giovane Dylan che si aggira e si esibisce nei locali newyorchesi del Village è già un artista, un po’ bohemienne nei modi, che va oltre la musica ma che assorbe gli umori del suo tempo, che frequenta i poeti beat e gli artisti presenti in quel brulicante e vivace mondo del Greenwich Village stesso. Uno che non rimane nella tradizione, intesa come folklore, ma che attraverso il folk è pronto andare oltre il volto dell’hobo solitario e cantastorie per gettare la prima vera maschera nel quale tutti lo volevano etichettare. Ed in questo, la conoscenza di Suzie Ruotolo, la sua prima fidanzata immortalata nella celebre copertina dell’album The Freewhelin, sarà fondamentale per avvicinare il giovane Bob al clima di lotta e di protesta che attraversava l’America del dopoguerra, quella del Maccartismo tanto per intederci.

La Ruotolo e la sua famiglia sono attivisti a sinistra ed impegnati in diverse associazioni di tutela e di protesta, ad esempio, per la difesa dei diritti civili delle minoranze e degli afroamericani. E Dylan è lì, ancora una volta per assorbire come una spugna tutto questo clima ma soprattutto per uscire da una maschera e da un cliché che in molti volevano a tutti i costi farlo rimanere, ovvero quello dell’hobo che si fa paladino della ortodossa e rigorosa tradizione folk. Dylan vorrà indossarne una nuova e più attinente ai tempi che sta vivendo e che da lì in poi trasformeranno l’America e il mondo, rigirandolo come un calzino.

Dylan ancora usa il folk come da codice di trasmissione, ma va ben oltre il genere a la tradizione riempendolo di contenuti nuovi e che si rifanno ai temi e alle tensioni del suo tempo. E già da Freewhelin, il secondo album, il cambiamento, in tal senso, è radicale. Si pensi solo all’incipit dell’album, ovvero a quella “Blowin in the Wind” che diventerà il segno distintivo se non il connotato della nuova “maschera” che Dylan prima consapevolmente indosserà e poi sarà quasi “costretto” a tenere per tutta la decade dei sixities o quasi. Ma Dylan comincia a capire che quel folk e soprattutto quel ruolo di nuovo paladino dei movimenti di protesta cominciano a stargli stretto. Qualsiasi etichettatura per lui diventa insopportabile. Ed ecco che allora, da lì a breve, arriverà la seconda svolta. Dare al folk una veste nuova, ma soprattutto ascoltare le sue canzoni con orecchie nuove, adattandole ai “tempi che stanno per cambiare”, tanto per citare il titolo di una delle sue più famose composizioni. Dylan attacca il jack della sua chitarra elettrica all’amplificatore e comincia una rivoluzione musicale, e non parliamo solo di stile, che molti non comprenderanno o accetteranno subito. Anzi i puristi del folk e di coloro che lo avevano collocato a mo’ di santino della tradizione, vedranno in questo un tradimento bello e buono. E quando il 25 luglio del 1965, si presenta al Newport Folk Festival con alcuni componenti della Paul Butterfield band e attacca “Like a Rolling Stone”, tanti parleranno di sacrilegio. Con il buon Bob inondato di fischi e dove, pare, che il padre-padrone del folk, Pete Seeger, minacci di tagliare i fili dell’amplificazione con l’accetta. Ma ormai Dylan ha per sempre attraversato il suo personale Rubicone, facendo diventare il Rock adulto, ovvero una roba seria dove poter inserire testi di alto valore culturale e poetico e non più semplici strofe e canzonette per teen- agers. Via per sempre la maschera del folk singer per abbracciare una forma canzone nuova, come una “pietra rotolante” che nessuno ormai fermerà più. E non varranno le proteste ed i fischi nei concerti dei suoi fans della prima ora per fargli cambiare idea. La grammatica del Rock non sarà più la stessa. Dylan ha cambiato per sempre la musica ed è stato il mondo che nel 1966 ha dovuto rincorrerlo per comprendere la portata di quanto fatto. E correndo veloce, si può anche imbattere in un incidente. Come quello che, da lì a poco, capiterà al nostro proprio nel 1966, rischiando di strapparcelo via per sempre. Per fortuna non fu così. Ma Dylan sparì dalle scene per molto tempo, proprio mentre la stagione di protesta e grandi concerti epocali si affacciavano alle porte. Lui invece preferisce il focolare domestico, ritirandosi nella campagna newyorkese di Woodstock (ironia del caso, da lì a poco luogo simbolo del concerto che fu e dell’epoca che si viveva) e qui, con una manciata di musicisti, che in futuro daranno vita al nucleo storico della Band, si metterà a riscoprire le radici della musica americana, suonando a ruota libera e registrando quasi ininterrottamente un materiale che sarà poi il nucleo di quelle Basement Tapes, per molto tempo sorta di Sacro Graal nascosto a molti suoi ammiratori. Per chiudere gli anni ’60, ci sarà spazio per il Dylan country, con voce melliflua e melodica, che insieme a Johnny Cash ci invita a seguirlo nel Nashville Skyline.  Il discorso sarebbe adesso lungo nel Dylan che affronta le successive decadi dei ’70; ’80, ’90 fino al nuovo secolo e a noi oggi. Molti sono stati i dischi e la musica prodotta. E in ogni decade, come un minimo un capolavoro si è affacciato per dire che lui ancora c’era. Se alcuni dischi saranno talvolta passi falsi, altri lo vedranno come una sorta di araba fenice che risorge dalle sue ceneri.

Altre saranno anche le “maschere” indossate nel tempo. Ci sarà, tanto per fare qualche esempio, quella del Dylan mistico e religioso; poi quella, tipica degli anni ’80, del Dylan che flirta con il mainstream, con il circo dello star-system e dell’avvento dei video clip. Ci sarà, infine, il Dylan del secondo millennio. Quello che ha ricevuto un Nobel alla letteratura senza andare nemmeno a ritirarlo, quasi a ribadire che diventare il poeta eterno ed acclamato dal “sistema” non è che gli stesse del tutto bene. In tempi recenti, il nostro si è anche divertito ancora a mescolare le carte, indossando panni del crooner intento alla rilettura del Grande Canzoniere Americano,nelle sue ultime e  non sempre “facili” prove musicali all’ascolto. Il tutto, guarda caso, ancora con la massima libertà di un artista che non ha seguito le richieste del mercato discografico e delle facili mode del momento, ma ascoltando il suo cuore e assecondando la sua sensibilità e le sue curiosità del momento di musicista. Molti, però, si erano già rassegnati a questo nuovo Dylan in questa sua nuova veste di artista che, in una sorta di pensione dorata, si diverte a sfornare album di tradizione di maniera e di ricerca quasi etnomusicale ma di minore aderenza ai tempi odierni. Ed invece, proprio quando nessuno più se lo aspettava, il nostro riaccende le antenne sul mondo e ci consegna il capolavoro che non ti aspetti. Quell’ultimo “Rough and Rowdy Ways” che solo la chilometrica Murder Most Foul ne vale l’acquisto. Un brano che è un “flusso di coscienza” di oltre sedici minuti, dove Dylan fa scorrere la storia politica e culturale americana e, di riflesso, occidentale per permetterci di riflettere sui tempi attuali di pandemia e di altro. Un qualcosa di sbalorditivo e mai sentito che ci dice che il nostro Bob non si era ritirato nel suo personale soggiorno musicale chiudendo occhi e orecchie a quello che gli accadeva intorno. E se la veste musicale delle sue canzoni non osano uscire dal solco di una grammatica nota, le liriche spesso visionarie ma molto legate al presente, ci dicono come ancora Dylan ha cose da raccontarci.  In una totale libertà di pensiero e di espressione che lo ha fatto fuggire da ogni cliché trasfigurando sempre se stesso e la sua arte pur rimanendo ben saldo entro l’alveo di una antica tradizione musicale che parte dal blues per i mille rivoli di stili e generi che partorirà nel tempo.  In questi ottant’anni, c’è, però un filo che unisce il volto di quel timido ragazzo che, all’inizio dei ’60, si presentava al Village con la chitarra e tante cose da raccontare a quello attuale: rugoso e accigliato; spesso enigmatico e quasi impassibile. Ed è quello di un uomo che ha sempre voluto “ascoltare e leggere” le epoche che attraversava, riconsegnandoceli e fissandoli con la sua musica e la sua poesia ad eterna memoria, in pagine immortalida leggere e rileggere per ricordare cosa è stato il mondo che fu e quello che è e la storia degli uomini che lo hanno attraversato. Ancora tanti auguri Bob, tamburino dei nostri tempi che, se suoni ancora una canzone quando non c’è più nessun posto dove andare, nel tintinnante mattino avremo ancora la forza di seguirti. Sempre….

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