di Vincenzo Vita.

Nel disinteresse più o meno generale dei grandi mezzi di comunicazione, si sta celebrando il processo a Londra contro il fondatore di WikiLeaks Julian Assange.

Il tribunale è il messaggio, si potrebbe dire. Come testimoniano le cronache di Craig Murray (sul blog “L’antidiplomatico”) e di Stefania Maurizi (su “il Fatto Quotidiano”) il luogo e il clima del dibattimento sono indice di scelte aprioristiche molto nette: ad essere messo in stato di accusa è il giornalismo libero e lo status di colpevole per l’imputato è già scritto. Alla faccia della britannica (presunta) “terzietà” della Corte. Infatti, il “Woolwich Crown Court”, che ospita il “Belmarsh Magistrates Court”, è parte integrante dell’edificio al cui interno sta la prigione di massima sicurezza in cui vive il detenuto. E dire che le udienze di estradizione, quale quella in corso, generalmente si svolgono presso il tribunale dei magistrati di Westminster, centrale e vicino ai luoghi istituzionali.

Ma il Regno Unito, buon alleato degli Stati Uniti, sembra avere già condannato l’uomo al quale non aveva rilasciato il permesso per uscire dall’ambasciata dell’Ecuador di Londra, e dopo avere di fatto sconsigliato la giustizia svedese di concludere favorevolmente la vicenda sulla vita privata di Assange. Eppure, le stesse Nazioni Unite avevano preso una posizione netta - nel 2015- contro la detenzione.

La pubblica accusa, sostenuta in nome e per conto degli USA dall’avvocato James Lewis, ha centrato la sua argomentazione sulla specificità delle colpe del coraggioso australiano, da non confondere – ha sottolineato- con il comportamento degli stessi giornali (New York Times, Guardian, Spiegel, ad esempio) che hanno pubblicato l’immane lavoro di WikiLeaks. Parliamo delle migliaia di file segreti sulla guerra in Afghanistan, dei cablogrammi della diplomazia d’oltre oceano, delle centinaia di schede dei detenuti di Guantanamo. E così via. Il principale accusatore, dunque, ha tenuto l’arringa non per la giudice Vanessa Baraitser, bensì per i media che vanno per la maggiore: considerati innocenti, pur avendo pubblicato le notizie procurate da Assange. Il consenso val bene una menzogna, vale a dire l’incriminazione in base all’Espionage Act, malgrado sia stato dichiarato dal Pentagono che non vi è stata nessuna conseguenza per le notizie diffuse.

Quindi, è chiaro il disegno: Assange non è un giornalista, bensì una volgare spia. E come tale viene trattato in un luogo che assomiglia ad uno dei tristi e famigerati tribunali speciali dei regimi autoritari, con tanto di gabbiotto isolato per l’imputato e il pubblico ridotto all’osso (sedici posti in aula). Altro che giustizia indipendente e aperta al controllo popolare.

In verità, il caso di Assange sembra una prova generale di processo post-democratico. La condanna è scritta prima e il resto è solo una cerimonia mediatica. Chi osa mettere il naso nelle attività criminose dei potenti della terra rischia anche 175 anni di carcere.

In Italia, malgrado le prese di posizione della Federazione della stampa e qualche (pur poco affollata) significativa mobilitazione di piazza, l’informazione dominante tace. Non ci si rende conto, forse, che l’eventuale estradizione di una persona peraltro fisicamente provatissima è l’inizio di una vendetta contro la libertà di espressione. In una deriva culturalmente sempre più conservatrice e reazionaria, il diritto dei diritti è un lusso che non ci si può permettere.

Il silenzio non è d’oro. E’ solo il suicidio della democrazia, in uno degli assi portanti.

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