di Maria Pellegrini.

«Circa l’84% delle specie vegetali e il 78% delle specie di fiori selvatici nell’Unione Europea dipendono dall’impollinazione. Quindi, anche e soprattutto dalle api. Almeno una specie su dieci di api e farfalle in Europa è a rischio di estinzione. Basterebbe questo dato per illustrare lo stringente bisogno di tutela di questi insetti». Leggiamo questo accorato appello di Stefano Palmisano, avvocato ambientale e alimentare, nell’articolo La tutela delle api (blog Micromega) nel quale ricorda l’importanza di tutti gli insetti impollinatori e la necessità di proteggerli. Uno sguardo attento è rivolto alle api che come ci ricorda Virgilio nel IV libro delle Georgiche, sono «piccoli esseri che offrono all’uomo il dono celeste del miele», ma ancor più sono ammirate per la loro struttura sociale, quasi un modello di organizzazione, laboriosità e diligenza.

Virgilio (70 a. C. -19 d. C.) appartiene a una famiglia della media borghesia agricola, abbastanza florida nella Cisalpina, ma rovinata dalle vicende della guerra civile. Studia a Roma e a Napoli, è colto, sensibile, raffinato, malinconico, educato alla scuola dell’epicureismo campano, ma rimasto segnato da una sottile angoscia che aleggerà in tutta la sua opera, come in quelle di tutti gli autori latini che, dopo la caduta della repubblica e durante i secoli dell’Impero, non sapranno più sorridere. Il suo distacco dall’epicureismo e la sua nuova fede di stampo contadino e italico sarà sancita da due famosi versi nelle Georgiche: Felix qui potuti rerum conoscere causas, /.../ sed felicior qui novit deos agrestes, “Felice chi poté conoscere le cause delle cose [...] ma felice anche colui che conobbe gli dèi agresti.”

Nelle Bucoliche, la prima sua opera il tema era stato la pastorizia, idealizzata in una sorta di Arcadia; nelle Georgiche il tema è la vita dei campi in tutti i suoi aspetti e in tutte le diversità delle attività legate alla terra.

Entrato prima del 38 a. C. nel circolo di Mecenate, Virgilio amplia i suoi interessi e segue lo svolgersi degli avvenimenti politici. L’idea di scrivere un poema sull’agricoltura corrisponde al piano propagandistico di Ottaviano che intende favorire un ritorno alla terra dopo le guerre civili e la rovina dei campi e di ricostruire in Italia una classe media agricola, laboriosa; perciò Mecenate suggerisce al poeta di scrivere un’opera poetico/didascalica che sia utile agli agricoltori. Virgilio asseconda tali desideri e compone le Georgiche dal 38-37 al 30 a. C. durante gli anni più turbolenti della storia romana; soltanto dopo la vittoria di Azio su Antonio e Cleopatra del 31 a.C., si annuncia un periodo di pace. Si tramanda che Ottaviano nel 29 a. C. dopo le campagne seguite alla vittoria, tornato in Italia si sia fermato nella villa di Atella in Campania e abbia ascoltato Virgilio e Mecenate che si alternavano nella lettura dei quattro libri di cui si compone l’opera.

Il genere letterario di questo secondo lavoro virgiliano appartiene alla tradizione della poesia didascalica, inaugurata da Esiodo con Le opere e i giorni. Il poeta intende dare consigli ai contadini che ignari della vita agreste hanno bisogno di essere guidati, ma al tempo stesso dare un messaggio morale e politico: attraverso il ritorno alla terra ritrovare i valori autentici della tradizione romana legati alla civiltà contadina e alla piccola proprietà italica, alla laboriosità, frugalità, rispetto e culto della famiglia.

Dopo aver invocato Mecenate, sotto la cui protezione il poeta si è posto attribuendo a lui il vanto di scrivere tale poema, ci sono le istruzioni all’apicoltore sul luogo adatto per un alveare e l’elenco delle cure che esso richiede. Deve essere posto dove non ci sia passaggio di venti e di animali che pascolando calpestino i fiori, o di uccelli insettivori, «ma vi siano limpide fonti e stagni verdeggianti di muschio / e un ruscello che corre sottile in mezzo all’erba / e una palma o un grande oleastro ombreggi l’entrata». Seguono consigli sul modo di costruire le arnie, con tutti gli accorgimenti per evitare che il freddo dell’inverno addensi troppo il miele.

A primavera le api riprendono liete l’attività: «quando l’aureo sole allontana l’inverno e lo scaccia sotto terra, / e dischiude il cielo alla luce estiva, le api subito / attraverso balze e selve, mietono fiori purpurei / e lievi delibano limpide acque. Da allora, colme di non so quale dolcezza, / si preoccupano di preparare i nidi per la prole». Se si alza in volo uno sciame simile a «una nube nera trasportata dal vento», bisogna cercare di catturarlo, invogliando le api a posarsi nel posto opportunamente preparato. Si piantano intorno agli alveari alberi e piante odorose che spargono aromi; sui fiori di quel piccolo giardino le api si posano e poi si nascondono nei più profondo dei nidi delle arnie.

Fra due gruppi di api, ciascuno con il suo re (Virgilio parla di re delle api e non di regine), può scoppiare una lite e ci saranno combattimenti, l’apicoltore dovrà eliminarne e scegliere di far sopravvivere quello dal corpo rilucente come d’oro perché nella reggia deve regnare soltanto il migliore, come pure si deve fare attenzione alle api migliori da allevare, quelle che presentano le stesse caratteristiche di brillantezza del re. Da questa razza si otterrà il miele più pregiato. Seguono consigli sulla raccolta del miele, si enumerano le malattie e i rispettivi rimedi. Dopo un excursus sugli orti e i giardini e il ricordo di un vecchio contadino di Corico, città dell’Asia minore, si passa alla puntuale descrizione della società delle api. Hanno in comune la prole e l’abitazione, e nella buona stagione raccolgono e mettono in comune quanto servirà nell’inverno. Infatti, con una perfetta suddivisione del lavoro, alcune faticano nei campi, altre costruiscono i favi con la cera o guidano fuori le nuove generazioni o riempiono di miele le celle. Ad alcune spetta la vigilanza agli ingressi e, a turno, scrutano le condizioni del cielo o ricevono il carico delle api che arrivano. La raccolta nei prati e sugli alberi in fiore spetta alle più giovani: l’attività cessa solo al calar della sera: «A tutte un unico riposo, a tutte un’unica fatica: / al mattino erompono dalle porte senza indugio». Lavorano tutto il giorno e a sera tornano a casa: «Poi quando tutte già si sono distese sui giacigli, tutto tace / nella notte e il giusto sonno invade le membra stanche».

Anche per i filosofi, le api rappresentano esempi di organizzazione del lavoro, Seneca scrive a Lucilio: «Non vedi con quanta precisione le api costruiscono la loro casa, con quanta concordia da parte di tutte ciascuna attende ai rispettivi compiti?».

Le Georgiche sono del tutto prive del noioso linguaggio precettistico e della aridità e della monotonia della materia, anche per l’alternanza di digressioni narrative molto felici poeticamente come la storia del misterioso contadino di Corico, che ha pochi iugeri di terreno abbandonato, eppure tra i rovi pianta ortaggi e tutt’intorno candidi gigli, verbene e papaveri. Egli si sente ricco quanto un re e tornando a casa «a tarda sera colma la mensa di cibi non comprati / primo a cogliere la rosa a primavera e in autunno a cogliere i frutti». Ha anche api in abbondanza e raccoglie miele dai favi.

Il libro termina con un’altra digressione, lo stupendo squarcio narrativo della tragica vicenda di Orfeo che ha perso la sua dolce sposa, Euridice, e di lei canta all’alba e al tramonto. Per riaverla osa entrare nel regno dei morti e pregare gli dei infernali. Tutte le ombre che affollano l’Oltretomba accorrono colpite dal suo canto. La sua mirabile arte poetica commuove le potenze infernali che gli concedono di riportare sulla terra la sua amata. Travolto dal desiderio di vedere la sposa, Orfeo trasgredisce il divieto di voltarsi prima di essere fuori dalle soglie infernali, e la perderà per sempre, «subito ella sparve via dagli occhi come tenue fumo misto ai venti». Si narra che per sette mesi continui egli pianse «addolcendo le tigri e facendo muovere le querce con il canto:/ come all’ombra di un pioppo un afflitto usignolo / lamenta i piccoli perduti, che un crudele aratore / spiandoli sottrasse implumi dal nido: piange / nella notte e immobile su un ramo rinnova il mesto canto».

Il grande latinista Concetto Marchesi ha considerato le Georgiche «il capolavoro della letteratura latina per la solida unità di concezione e di espressione e per l'indissolubile bellezza di suono, di parola e d’immagini». L’agricoltura è diventata poesia, con grande varietà dei toni, uno degli elementi essenziali dell’armonia e dell’arte delle Georgiche: i precetti minuziosi per gli agricoltori si alternano a versi di alta liricità.

Nota: nell’immagine una miniatura medievale con api e alveari

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