Amala
di Giovanni Dozzini
Le scene a Milano e a Perugia di ieri, fiumi di gente che si riversano nelle strade e nelle piazze in barba a ogni regola e ogni forma di sicurezza, erano purtroppo prevedibili. Molti oggi si chiedono: come è stato possibile permetterlo? Ma la domanda è fuori luogo.
La dimensione del tifo organizzato è da anni una dimensione aliena al consesso sociale, lo stadio un luogo in cui le regole che valgono fuori, semplicemente, non valgono. Ieri mi ero illuso, in verità pochissimo, di poter condividere la mia gioia di tifoso interista con quella dei tanti tifosi del Perugia, squadra per la quale, essendo quella della mia città, naturalmente simpatizzo. A essere onesto speravo che l'Atalanta vincesse, in modo da poter festeggiare lo scudetto sabato prossimo, sei giorni dopo la probabile e auspicata promozione in B del Perugia. Invece è andata come è andata, e avendo promesso a mio figlio, che a nove anni vinceva il suo primo scudetto proprio pochi mesi dopo la morte del nonno tifosissimo dell'Inter, che avremmo festeggiato andando a fare caroselli in macchina, ho voluto azzardare un esercizio di ottimismo. Sciarpe e bandiera dell'Inter fuori dal finestrino, e via a clacson spianato. Avevo già preparato un po' Diego, scimmiottando la cadenza gutturale dei perugini di città: vedrai che qualcuno ci urlerà contro qualcosa. Siamo arrivati a Perugia, e hanno fatto in tanti quel che temevo facessero. Diego non se l'è presa, nessuno gli avrebbe tolto la gioia per lo scudetto, e d'altronde, ha ammesso, l'avevo preparato. Quando, poco fuori dal centro, abbiamo incrociato due ragazzine fuorisede che camminavano con un cartello nerazzurro in mano e loro vedendoci hanno cominciato a saltare e gridare quasi incredule è stato un risarcimento sufficiente. La bellezza del tifo, questo enorme calderone di passione e irrazionalità, sta anche in cose come questa. Quel che volevo dire, in ogni caso, è che molta gente, soprattutto gente che va allo stadio ma non solo e non per forza quella (allo stadio va anche parecchia gente in gamba che disapprova i deragliamenti più beceri di quella dimensione), vive il tifo in modo malsano e violentemente tribale, come possono essere violenti i gesti e le parole, e che le società e le autorità lo tollerano perché da un lato i tifosi servono ad alimentare i bilanci e dall'altro si è deciso di concedere una valvola di sfogo ben circoscritta a masse di che altrimenti potrebbero far danno altrove e altrimenti - e spesso lo fanno peraltro comunque, ma in minor misura.
Quindi di che ci stupiamo, se ieri trenta o quarantamila persone hanno fatto i fenomeni fottendosi dei sacrifici e della fatica di tutti? Nessuno avrebbe potuto impedirglielo, a meno che non si fosse voluta scatenare una guerriglia urbana della quale staremmo contando ancora i morti.
Di sicuro per me vivere lontano dalla città in cui è nata e ha sede la mia squadra del cuore è il modo migliore, a quarant'anni suonati, per continuare a tifarla.
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