Alla morte di Seiano il popolo distrugge le sue statue.
di Maria Pellegrini.
In seguito alle proteste negli Stati Uniti per il brutale omicidio di George Floyd, le statue inneggianti a personaggi legati al razzismo e al colonialismo sono state abbattute in numerose città. Il fenomeno di cancellare monumenti o statue, simboli di un passato vergognoso sul piano morale e storico, ha radici antiche e torna periodicamente di attualità. Anche in questi giorni se ne discute con riflessioni tra storici, psicologi, antropologi. Spesso la rabbia iconoclasta esplode dopo la caduta di regimi dittatoriali, il popolo corre a distruggere le statue del dittatore di turno. Un esempio tramandato dalla storia romana è l’abbattimento delle statue di Seiano che cercò di impadronirsi del potere usurpandolo all’imperatore Tiberio, dal quale perciò fu fatto giustiziare.
Ma chi era Elio Seiano? Figlio di un cavaliere di Volsinii (Bolsena) in Etruria, fu prefetto d’Egitto e prefetto del pretorio, due cariche di massimo impegno e prestigio nella gerarchia imperiale. Era un homo novus, con antenati rispettabili, non appartenenti alle famiglie nobili ma con una fitta rete di parentele influenti. Grazie alla sua abilità manovriera era divenuto consigliere di Tiberio che giungeva fino a discutere con lui i gravi e spesso decisivi problemi dello Stato.
Nominato prefetto del pretorio (14 d.C.) aveva concentrato in un unico alloggiamento a Roma l’intero corpo delle coorti pretorie affinché potessero ricevere gli ordini tutte insieme e con il numero e la forza mostrata nascesse nei soldati la fiducia, negli altri la paura, ma soprattutto per avere a portata di mano la guardia del corpo imperiale e legare i pretoriani a sé con continui donativi e avanzamenti di grado. Era lui stesso a scegliere i tribuni e i centurioni di quei reparti speciali, che da allora in poi decisero la fortuna o la fine di molti imperatori successivi. Con la sua lungimiranza, Augusto non aveva mai ammesso più di tre coorti di pretoriani nella città, dislocando le altre nei municipi vicini, Tiberio, invece, sebbene sempre incline a una vera e propria cultura del sospetto, spinse la sua fiducia in Seiano fino ad avallarne decisioni discutibili e di non sua spettanza, e ad elogiarlo pubblicamente come ottimo compagno di lavoro, lasciando che egli acquistasse fama e potere, e permettendo che nei teatri, nelle piazze, nel quartiere generale delle legioni si ponessero statue con la sua effigie.
La forza di Seiano era rappresentata, oltre che dalla sua astuzia, da una eccezionale capacità di adulazione e di finzione: sapeva apparire leale e devoto, perfino umile, mentre la sua sfrenata ambizione lo induceva ad aspirare alla successione di Tiberio. E fu proprio questa folle ambizione - che ignorava la difficoltà e anzi l’impossibilità di infrangere la continuità dinastica della dinastia Giulio-Claudia - a portarlo alla rovina. I parenti diretti o acquisiti dell’imperatore, possibili successori al soglio imperiale, erano a corte. Ma egli non si spaventò e diede inizio ad un sinistro piano di “eliminazione”. Nel 19 d. C. a Tiberio, dopo la morte del nipote Germanico, (padre del futuro imperatore Caligola), rimanevano il proprio figlio Druso, associato al trono con il conferimento della potestà tribunizia, i due figli di questo e i tre figli del defunto Germanico. «Sopprimerli con la forza tutti insieme era malsicuro. Bisognava agire con prudenza e lasciar trascorrere del tempo tra le singole morti». Così scrive Tacito negli “Annali”. Il suo racconto ha come livido sfondo il sovvertimento di ogni valore morale e sociale nella Roma imperiale del tempo: competizioni accanite per cariche e onori, nefanda attività dei delatori, processi intentati a innocenti, premi elargiti a uomini indegni, servilismo, terrore, sfiducia dei pochi onesti nell’autorità e nella giustizia, e dal 23 al 26 d. C., continuò a crescere ancor più il numero dei processi di lesa maestà. Su questo sinistro orizzonte Seiano, forte del favore e della fiducia di Tiberio, che forse cominciava a sospettare di lui, mise in atto il suo piano delittuoso, cominciando con l’eliminazione del figlio di Tiberio, Druso, nei confronti del quale egli provava un sentimento misto di invidia e di ira.
Dopo aver considerato tutte le strade per giungere a sopprimere un concorrente così pericoloso, Seiano agì con spregiudicatezza totale e gelido cinismo: simulando amore per Livilla, moglie di Druso, riuscì a superarne la resistenza e a diventarne l’amante; avutala così in suo potere («una donna, scrive in proposito Tacito, perduto il pudore, non può negare più nulla»), le promise le nozze dopo l’uccisione del marito, e per toglierle ogni dubbio sul proprio amore e sulla propria lealtà, ripudiò e scacciò dalla propria casa la moglie Apicata da cui aveva avuto tre figli. Corruppe poi con denaro e promesse di alti e prestigiosi incarichi a corte il medico di Livilla, Eudemo, il quale per simulare una grave ma casuale malattia scelse un veleno dall’azione lenta, che fu propinato a Druso dall’eunuco Ligdo. Tale diabolico piano venne alla luce otto anni dopo, per confessione di Apicata, la moglie ripudiata.
Tiberio per tutta la durata della malattia del figlio mostrò una grande forza d’animo - anche se Tacito parla di gelida indifferenza - continuando a frequentare puntualmente le sedute del Senato. Così fece anche in occasione della morte di Druso (23 d. C.) quando pronunciò un discorso appassionato per affidare ai senatori i figli del defunto Germanico, ricordando che essi, già orfani di padre, adesso erano privi anche del sostegno di Druso che li considerava e curava come figli. Nel 26 d. C. l’imperatore decise di ritirarsi prima in Campania e l’anno successivo a Capri su consiglio dello stesso Seiano, per non fare mai più ritorno a Roma.
Nel 31 d. C. Seiano fu eletto console insieme all’assente Tiberio, e il Senato gli decretò onori pari a quelli imperiali, quasi divini. Egli, dicevano alcuni, era ormai il vero imperatore, mentre Tiberio era soltanto il re di Capri.
Ma l’ora della resa dei conti era vicina. Tiberio, informato delle sue macchinazioni, si comportò dapprima con cautela, secondo il suo carattere ma infine, giunto alla certezza sulle segrete attività del suo ministro e collega nel consolato, ruppe ogni indugio e agì con decisione: inviò da Capri una lettera di denuncia al Senato. A proposito di essa e degli eventi conclusivi di questa terribile vicenda che si concluse con una rapidità fulminea, è opportuno riportare il racconto dello storico Cassio Dione:
«Per il momento il senato fece gettare Seiano in carcere, ma poco dopo, proprio nello stesso giorno, quando si rese conto dei sentimenti ostili della popolazione nei confronti del prefetto e quando vide che non era presente nessuno dei pretoriani, dopo essersi riunito nel tempio della Concordia nei pressi del carcere Mamertino, condannò a morte Seiano. In seguito a questo verdetto il reo fu strangolato, il corpo gettato giù dalle Gemonie, e la folla continuò a infierire per tre interi giorni sul suo cadavere, poi buttato nel Tevere. Per decreto furono messi a morte anche i suoi figli e la figlia venne prima violentata dal carnefice, dato che non era lecito che una fanciulla illibata venisse giustiziata in carcere. La sua ex-moglie, Apicata, condannata anch’essa a morte si suicidò, dopo aver inviato una lettera a Tiberio rivelando le colpe di Seiano e Livilla in occasione della morte di Druso. Livilla fu dunque processata, ma per evitare una sicura condanna si lasciò morire di fame. Alla morte di Seiano (31 d. C.) e dei suoi familiari seguirono poi una serie di processi contro gli amici e i collaboratori del defunto prefetto, che furono condannati a morte o costretti al suicidio.
Un’eco di quanto accadde in cui giorni, si può riscontrare in una delle più amare e sferzanti satire, di Giovenale che narra come, morto il tiranno, la gente si affrettasse a tirare giù dai basamenti tutte le sue statue, a distruggerle e, se di bronzo, a metterle sul fuoco e rifonderle in oggetti utili:
«Le statue crollano al suolo tirate da funi: /già sibila il rogo; nel fuoco tra i mantici, /quel capo che prima la folla adorava, ora brucia; /crepita il grande Seiano, dal secondo vólto del mondo /si traggono orcioli catini padelle orinali» (“Satire”, X, vv.58 sgg).
La gente che prima lo temeva, ora si vendica, si rallegra alla vista di «Seiano appeso a un uncino» e pronuncia parole di disprezzo: «Che bocca, che faccia che aveva! Mi credi se dico che mai mi è piaciuto quest’uomo?»
Poi quando è a conoscenza che la sentenza di morte è arrivata da Capri, cioè da Tiberio, la folla ammutolisce e non osa dire più nulla.
Eppure soltanto poco tempo prima lo storico Velleio Patercolo aveva scritto:
«Cesare ha tuttora come ineguagliabile aiutante delle funzioni imperiali in ogni campo, Elio Seiano […] Già da tempo l’apprezzamento della cittadinanza per le virtù di Seiano procede di pari passi con la stima che ne ha il principe; e non è cosa nuova per il senato e il popolo romano considerare tanto più nobile un uomo, quanto più eccelle per le sue qualità».
Al contrario di Velleio, che si abbandonò a tali elogi mentre il prefetto del pretorio era ancora in vita, Valerio Massimo, che pubblicò la sua opera dopo la morte di Seiano, si scagliò contro di lui con disprezzo, intrecciando alle ingiurie per il potente ministro abbattuto grandi elogi di Tiberio, cui attribuiva «il merito di aver salvato l’impero dalla rovina che Seiano, definito “il parricida”, stava preparando».
Non ci resta che costatare lo sfacciato opportunismo encomiastico dell’uno che scrive mentre Seiano è in vita e dell’altro che scrivendo dopo la sua morte non esita a ingiuriarlo, a inserirlo tra gli esempi di ingratitudine, ma non lesinando sperticati elogi nei confronti del vivente Tiberio.
Nota: nell’immagine un asse di Tiberio battuto nel 31 d. C. a Bilbilis in Spagna in onore dei consoli di quell’anno Tiberio e Seiano. Al rovescio della moneta è cancellato, per la damnatio memoriae, il nome di Seiano (era scritto nella parte tra 2 e 5 di un orologio)
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