di Angelo Mastrandrea

Non poteva avere obiettivo più diretto, l’annuale convegno della Società dei territorialisti, svoltosi a Milano alla fine di maggio: “Ritorno alla terra”. I territorialisti non sono post leghisti né ideologi del Nimby – acronimo di “not in my backyard”, “non nel mio giardino” –, appendice estrema e conservatrice della resistenza all’apertura delle frontiere geografiche e culturali. Sono architetti, ingegneri, docenti universitari, attivisti neoruralisti. Un po’ seguaci del filosofo della “decrescita felice” Serge Latouche, un po’ teorici dell’alleanza tra produttori e consumatori, tutti proiettati verso un modello di sviluppo eco-compatibile, si definiscono “entomologi del territorio”. 

Per questo si pongono agli antipodi rispetto ai nonluoghi del mercato globale, all’appiattimento dei gusti e dei consumi, alla globalizzazione che sotterra ogni identità. In questo momento, sono la punta teorica avanzata di un fenomeno che, nella crisi del neoliberismo, prende sempre più piede: quello del ritorno alla terra, appunto. Per inquadrarlo al meglio è necessario fare un po’ di conti: la Cgil e Sbilanciamoci hanno stimato nel 25% la perdita di produzione industriale in Italia dal 2008 a oggi; viceversa, ci dice l’Istat, in agricoltura le assunzioni sono aumentate del 3,8% rispetto allo scorso anno. In questo quadro, il biologico fa registrare addirittura un +10% di fatturato: basta farsi un giro nei mercatini bio di mezza Europa, specie nei paesi del Nord dove la diffusione di questi prodotti è di massa, per rendersi conto di come il cibo italiano sia diffuso.

Se si pensa che nel 1860, al momento dell’unificazione, l’Italia era un paese che viveva al 90% di agricoltura, e di come la “civiltà contadina” di cui tesseva le lodi il poeta-scrittore-politico Rocco Scotellaro sia stata spazzata via a partire dal dopoguerra, potremmo essere di fronte, oggi, al primo segnale di inversione di tendenza. I territorialisti, dal canto loro, mettono legna al fuoco del progetto di riconversione agricola: parlano di filiere alimentari sostenibili, chilometro zero e alleanze tra produttori e consumatori. Propositi tanto affascinanti quanto realizzabili, a Nord, se si pensa che l’Expo 2015 di Milano avrà come tema portante l’alimentazione, tra i consulenti scientifici c’è l’ecologista indiana Vandana Shiva e un po’ di risorse stanno andando alla ristrutturazione delle vecchie cascine lombarde, alcune inglobate nello sprawl urbano, altre tuttora in aperta campagna. 

Anche a Roma, la città d’Europa con più terreni agricoli, si sta affermando un movimento di “nuovi contadini” che formano cooperative e si attrezzano a coltivare in maniera attenta alla salute e al territorio. “Siamo in presenza di un vero e proprio fenomeno, ma sappiamo bene che su cento giovani che si avviano su questa strada, alla fine rimarranno in venti”, mi dice il presidente dell’Aiab Lazio Adolfo Renzi, che incontro alla Città dell’Altra Economia nell’ex Mattatoio di Testaccio, a Roma, uno dei punti principali di sbocco della produzione biologica in Italia. Al netto dell’entusiasmo e della moda degli orti urbani – mediaticamente attraente e finalizzata all’autoconsumo, ma dai numeri ancora poco significativi – per parlare di una conversione a U del nostro sistema produttivo bisogna innanzitutto sviscerarne le difficoltà. La prima è la durezza del mestiere del contadino, il suo essere legato alla stagionalità. 

“Questo settore è per sua natura precario. Su un milione e centomila lavoratori, solo centomila hanno un contratto a tempo indeterminato”, mi spiega Davide Fiatti della Flai Cgil. La seconda è l’accesso alla terra: è forse esagerato affermare che siamo in una situazione analoga a quella dell’immediato dopoguerra, prima della riforma agraria, però gli intoppi, per un giovane che voglia mettersi a fare questo lavoro, sono notevoli. “Non è che la terra manchi in assoluto: ce n’è tanta abbandonata, altra è di proprietà pubblica. Ma il problema in Italia è l’edilizia: a Roma le terre sono nelle mani dei costruttori, e nei paesi i piccoli proprietari hanno come obiettivo quello di poterci costruire”, dice Renzi. 

La politica non li ha abituati bene: il settore delle costruzioni ha trainato il boom economico del dopoguerra, l’Italia è diventata un paese di proprietari di case – l’80% ne possiede almeno una – ed è sempre arrivata, prima o poi, una modifica dei piani regolatori a consentire di edificare o un condono a sistemare gli abusi. In Francia il problema è stato affrontato dando in comodato d’uso gratuito per due anni le terre incolte nelle mani dello Stato, e altrettanto si potrebbe fare da noi. I benefici potrebbero essere notevoli: stando alle stime della Confederazione italiana agricoltori (Cia), dall’agricoltura potrebbero nascere 150mila nuovi posti di lavoro, offrendo uno sbocco alla crisi occupazionale dei giovani. 

La Coldiretti si spinge persino più in là: i nuovi occupati potrebbero essere 200mila. Già nel 2012, a fronte di una recessione in quasi tutti i settori produttivi, quello agricolo è andato in controtendenza, facendo registrare una crescita dell’1,1 del Pil. “Sono dati che, sommati all’andamento in crescita sia dell’occupazione sia delle nuove aziende agricole iscritte negli elenchi delle Camere di commercio, dimostrano la vitalità di un settore che continua a muoversi con una tendenza anticiclica rispetto al resto dell’economia”, commentano alla Flai Cgil. Il problema dell’accesso alla terra è stringente a tal punto che a Roma è nato un Coordinamento dei soggetti che si battono per ottenerlo. 

Lo scorso 10 maggio le organizzazioni che ne fanno parte – tra le quali l’Aiab, le associazioni Terra e Da Sud, la Flai Cgil – hanno manifestato su un terreno di 22 ettari, di proprietà del comune, a Borghetto San Carlo, sulla via Cassia. L’obiettivo dei manifestanti era di far sì che il comune lo affittasse a una cooperativa di giovani agricoltori. “Trasformati da fondi dimenticati in aziende agricole, terreni come questo potrebbero essere quella green economy di cui tanto si parla”, ha dichiarato in quell’occasione Marta di Pierro, dell’Aiab Lazio. Qualche giorno fa le stesse organizzazioni hanno consegnato al neosindaco di Roma Ignazio Marino 10mila firme raccolte in calce a una petizione che rivendica l’assegnazione delle terre incolte ai giovani agricoltori. 

“Abbiamo chiesto di rimettere l’agricoltura al centro dell’agenda politica per difendere i posti di lavoro e crearne di nuovi in grado di assorbire la domanda occupazionale dei giovani”, ha dichiarato il segretario regionale della Flai Alessandro Borgioni. Per il sindacato della Cgil, solo a Roma si potrebbe dare occupazione a 35mila persone. Secondo la Coldiretti il 42% dei giovani, se avesse accesso alla terra, sarebbe disposto a darsi all’agricoltura. Un terzo elemento di difficoltà è il credito. Il 65% dei giovani – stando a un sondaggio Swg/Coldiretti – lamenta difficoltà ad accedervi, mentre il 67% ritiene necessari strumenti di finanziamento agevolato. In questo caso, si tratta di una situazione non dissimile da quanto avviene in altri settori. Nel frattempo, soprattutto al Nord si avvicinano le distanze tra produttori e consumatori. 

Nei Distretti di economia solidale (Des), molto attivi in particolare in Brianza, i gruppi di acquisto (Gas) fioriti in risposta alla crisi ma anche all’esigenza di consumare prodotti a chilometro zero e con garanzie di qualità, si incontrano con i coltivatori, accorciando drasticamente la filiera produttiva e sperimentando un modello mutualistico. L’obiettivo – rilanciato al convegno annuale della Società dei territorialisti – è quello di creare una Rete nazionale di economia solidale, esportando il modello in tutto il paese. Un’indagine commissionata dalla Cia alla Doxa ha messo in fila alcuni punti rilevanti per il settore: l’importanza della vendita diretta e dei mercati contadini per veicolare i prodotti, l’esistenza di uno spazio imprenditoriale per i distributori, la necessità di creare consorzi di aziende e di formare competenze per raggiungere nuovi canali di vendita, sostegno agli investimenti in attrezzature e mezzi per la distribuzione e la commercializzazione dei prodotti. 

Anche nel Mezzogiorno d’Italia, dove il Pil negli ultimi cinque anni è andato giù più che in Grecia, l’agricoltura non è solo sfruttamento della manodopera migrante e caporalato. La Calabria, ad esempio, è al secondo posto nel paese per numero di aziende biologiche e per ettari di terreno coltivati, appunto, biologicamente. I “nuovi contadini” non hanno più nulla a che vedere con quell’“agricoltura dell’assurdo” stigmatizzata da Manlio Rossi Doria in un celebre discorso al Teatro Stabile di Potenza, nel 1949: un modello produttivo votato all’autoconsumo, in cui la sproporzione tra l’impegno lavorativo e i risultati concreti aveva il solo effetto di rendere l’attività diseconomica e defatigante, al punto di indurre le persone a emigrare in cerca di condizioni di lavoro e di vita più soddisfacenti.

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