MACRON. IL VENEZUELA LE GUERRE E GLI OCCHIALI di Maurizio Acerbo
Torniamo su vicende di carattere internazionale: la vittoria contestata di Maduro in Venezuela: Le cronache rovesciano la realtà: sono più di due decenni che la democrazia in Venezuela è sotto attacco. Gli Stati Uniti dovrebbero smetterla di destabilizzare con sanzioni economiche e anche terrorismo quel paese. Vorrei ricordare che contro il presidente Chavez ci fu un colpo di stato apertamente sostenuto dagli USA e che la leader dell’opposizione così osannata dai media occidentali è una che ha pubblicamente auspicato un’invasione statunitense. Invece di favorire il dialogo politico interno, si punta alla polarizzazione, gettando benzina sul fuoco. La situazione rischia di peggiorare con Trump che è un aperto sostenitore del rovesciamento dei governi sgraditi a Washington e del sostegno all’ultradestra in America Latina. I Democratici non usano gli stessi toni e sembravano volere allentare la morsa intorno al Venezuela. Ora questa crisi politica riporta indietro la situazione. Approfitto per segnalare che Biden non ha revocato le durissime sanzioni con cui Trump ha inasprito il blocco a Cuba durante la pandemia e la situazione sull’isola si fa sempre più difficile. Gli Stati Uniti hanno inserito Cuba nella lista dei paesi che promuovono il terrorismo e bisogna sostenere la campagna contro questa infamia. Cuba ha promosso processi di pace che hanno posto fine a conflitti che duravano da decenni dal Salvador alla Colombia ed esporta medici non bombe. La sinistra in Europa dovrebbe sempre far presente che un blocco illegale e criminale strangola da decenni Cuba. Prima la smettano con blocchi e sanzioni poi avranno l’autorità per parlare di stato di diritto o di legalità internazionale.
Restando in tema di guerra, le vicende mediorientali potrebbero allargarsi e incendiare l’intero pianeta. Come andrebbero affrontate da una sinistra in Europa che deve liberarsi dal proprio imprinting coloniale?
La sinistra – e sicuramente noi comuniste/i – e i movimenti pacifisti debbono rifiutare le pulsioni colonialiste, imperialiste e suprematiste di un Occidente che si schiera dalla parte di Israele a prescindere perché quelli sono come noi, “l’unica democrazia del Medio Oriente”, ecc. Si è passati da un sostegno a Israele motivato dal senso di colpa per la Shoah a quello che si fonda sulla disumanizzazione dei palestinesi e la superiorità di un paese fondato da coloni arrivati da Europa e Americhe rispetto a un mondo arabo e musulmano che ha visto le proprie società aggredite dal colonialismo e dall’imperialismo a cui dobbiamo sia la sponsorizzazione dell’islamismo politico integralista che un’incessante lotta contro progetti di modernizzazione autonoma. Oggi si condanna la Repubblica Islamica iraniana ma bisognerebbe ricordare il golpe contro il liberale Mossadeq nel 1953. I fondamentalisti wahabiti alla guida delle petromonarchie chi ce li ha messi? Da antifasciste/i dobbiamo respingere con fermezza l’uso generalizzato dell’accusa di antisemitismo per zittire le voci critiche. L’Unione Europea, e quasi tutti governi dei paesi che la compongono, è stata finora complice del genocidio in atto a Gaza e dei crimini di Israele. L’atteggiamento verso Netanyahu mostra quanto ipocrite siano le motivazioni con cui si sostiene la guerra contro la Russia. Non è un caso che i più accesi sostenitori della guerra per procura in Ucraina siano anche schieratissimi con Israele nonostante Netanyahu sia un esponente dell’ultradestra. Tra loro vanno annoverati purtroppo anche i verdi tedeschi che sono diventati oltre che guerrafondai anche filo-israeliani. Noi dobbiamo continuare a lavorare per rompere questa complicità dell’Europa e dell’Italia con Israele. Non dobbiamo smettere di manifestare per il cessate il fuoco e lo stop al genocidio in atto a Gaza. Denunciare i crimini, l’apartheid, la pulizia etnica, l’occupazione illegale. Dobbiamo esigere che il nostro paese e l’UE agiscano per l’immediata attuazione della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che intima a Israele di ritirarsi dai territori occupati illegalmente, di smetterla con gli insediamenti illegali di coloni che vanno evacuati. Bisogna esigere che il parlamento riconosca lo Stato di Palestina, cancelli o almeno sospenda ogni invio di armi e la cooperazione nel settore militare e della difesa. Come possiamo essere legati per legge a un memorandum di cooperazione con un paese che porta avanti il genocidio e occupa illegalmente da decenni territori palestinesi? Bisogna chiedere che si impongano sanzioni a Israele come a suo tempo al Sud Africa dell’apartheid. Di fronte al genocidio in corso bisogna ritirare gli ambasciatori. Le campagne per il boicottaggio e il disinvestimento sono fondamentali. Bisogna essere al massimo netti nella condanna dei crimini quanto aperti al confronto, alla discussione, all’approfondimento, al dialogo per costruire una soluzione di pace e giustizia in Medio Oriente. Il movimento di solidarietà con Gaza in questi mesi è un fatto politico importantissimo perché ha visto un fortissimo protagonismo delle comunità palestinesi e più in generale immigrate in tutto il mondo occidentale e, purtroppo non Italia, un attivismo crescente degli ebrei per la pace soprattutto negli USA.
La guerra a pezzi è l’altro volto di un dato di fatto. Il modo di produzione capitalista e la salvaguardia del pianeta sono incompatibili. Quale centralità potrebbe dare Rifondazione a queste tematiche tenendo in connessione da una parte l’allarme bellico dall’altro le tante questioni sociali irrisolte?
Per noi sono al primo posto. La lotta contro la guerra e la militarizzazione delle relazioni internazionali, in questa fase storica segnata dallo scontro tra il blocco occidentale e le potenze emerse dalla globalizzazione neoliberista, è nostro compito prioritario. Per questo abbiamo aderito alla proposta di fare una lista contro la guerra alle ultime europee. Chi l’ha boicottata si è assunto una grave responsabilità. Era un’occasione per incrinare il servilismo bipartisan verso la deriva guerrafondaia dell’Unione Europea al seguito degli Stati Uniti. Non saremmo comuniste/i se non tenessimo insieme nella nostra analisi la “totalità”, per usare il concetto caro a Lukacs, della “modernità capitalista”. Questa è un’espressione di Ocalan. Due veri rifondatori. Non si possono disgiungere le lotte contro la guerra e la catastrofe ecologica dalla lotta di classe e da quelle di liberazione. Sia perché si finisce per non essere in grado di analizzare i processi in atto né di proporre alternative. Si finisce per essere trascinati nelle polarizzazioni reazionarie dominanti. La guerra è un esempio: devi tifare per forza per qualcuno. Siamo tra i pochi che non hanno dimenticato la lezione di Lenin e dei socialisti che si ritrovarono a Zimmerwald. Va ben inquadrata la questione del multipolarismo che di fatto esiste ma non c’è nessun polo che sia alternativo al capitalismo e i pericoli di guerra mondiale vengono proprio dalle contraddizioni fra i poli capitalistici. Si deve apprezzare il multipolarismo (e da questo punto di vista è fondamentale chiudere la NATO che è puro strumento del polo occidentale per dominare il mondo), difendere il diritto internazionale, l’ONU e le sue agenzie che per quanti difetti abbiano sono sempre molto meglio della legge della giungla. C’è bisogno di un punto di vista anticapitalista e intersezionale per comprendere la fase che stiamo attraversando e costruire un’opposizione efficace alla guerra e al disastro ambientale. C’è bisogno di movimenti e di una politica capace di coinvolgere la maggioranza della popolazione e delle classi lavoratrici per affermare la necessità di un’alternativa di società. E quindi le questioni sociali vanno connesse strettamente con quelle della pace e dell’ambiente. E dobbiamo dunque non solo proporre un programma di rivendicazioni che diano risposte ai problemi quotidiani ma anche far comprendere l’impatto sociale delle scelte di guerra. Sul piano ambientale c’è bisogno di una politica climatica ed ecologica del 99% per evitare che prevalga il negazionismo e la paura tra le classi popolari. Proprio la tendenza del capitalismo neoliberista a produrre catastrofi impone la necessità di un punto di vista e una pratica neocomunista.
Ed ora concentriamoci sul partito: Rifondazione è un partito sempre più anziano. Cosa occorrerebbe realizzare per produrre un reale cambiamento?
Lo dico subito, come insegnava Lenin, ogni problema organizzativo ha alla base un problema politico. Non affronteremo le oggettive difficoltà solo con approcci organizzativistici anche se c’è molto da fare anche su questo piano. I nostri problemi sono politici. Bisogna dirsi la verità altrimenti si ripetono formule sul rilancio come si fa dal 2008 mentre si retrocede. Però non dovremmo mancare di sottolineare il dato positivo della nostra capacità di resistenza. Siamo da 16 anni fuori dalle istituzioni e con scarsissima visibilità mediatica anche per la scelta di sacrificarci con generosità alla costruzione di progetti unitari. Se abbiamo difficoltà ad essere percepiti dalla massa della popolazione e in particolare dalle classi lavoratrici è ovvio che ci sono difficoltà ancor maggiori nel diventare attrattivi per nuove generazioni militanti o per le compagne che hanno attraversato le nuove ondate femministe o ambientaliste. Abbiamo fatto tantissime cose ottime sul piano sociale e di movimento negli ultimi 16 anni ma non riescono a determinare un rilancio. Quindi penso che le questioni vadano affrontate non solo sul piano delle pratiche, dell’organizzazione e della comunicazione. Il problema è politico. Dobbiamo rilanciare innanzitutto il progetto della rifondazione comunista, il suo profilo ideale e di cultura politica. La sua credibilità non in termini di coerenza che mi pare sia l’unica cosa che non ci è mancata negli ultimi 16 anni – poi ci saranno sempre ipersettari e qualunquisti a criticarci– ma come strumento utile a cambiare le cose e con un progetto di società condivisibile. C’è bisogno di un profilo forte della rifondazione comunista per sfidare il senso comune prevalente nella società e anche nei movimenti. Parole come partito e comunista vengono viste generalmente nel migliore dei casi come gloriose se declinate al passato, ma inutile zavorra nel presente e senza futuro. È probabilmente maggioritario l’anticomunismo e l’identificazione comunismo-stalinismo non solo tra i giovani. Dobbiamo essere capaci di smontare questa narrazione dominante anche tra chi ha posizioni anticapitaliste o comunque critiche. Per questo non credo che basti un approccio populista di sinistra pur utile su alcuni piani. C’è bisogno di cultura politica e elaborazione per confrontarsi con le culture prevalenti nei movimenti e capace di contrastare le ideologie dominanti nella società. Dovremmo riflettere sul fatto che persino la maggior parte delle persone che lavorano e collaborano con noi non si iscrivono al partito pur condividendone le posizioni e apprezzando il nostro impegno. È evidente che il partito ha un futuro se riesce a parlare e coinvolgere nuove generazioni, lavoratrici e lavoratori, a non essere monosessuato, a fare rete con energie intellettuali critiche che nel nostro paese ci sono. C’è un gran lavoro da fare invece di perdere tempo con polemiche stereotipate sempre identiche. Chi pensa che basti ripetere il mantra “mai col PD” o della “ripresa delle lotte” mi dovrebbe spiegare perché dopo 16 anni siamo più deboli di prima. Certo la soluzione non è neanche un atteggiamento speculare opposto. Ci sono forze presenti in parlamento e in tv che hanno meno militanti di noi. Però non possiamo fare finta di non sapere che è essenziale riuscire a parlare al paese e alle classi lavoratrici non solo a una bolla ipermilitante spesso, tra l’altro, presente solo sui social. C’è bisogno di una visione storica e di una visione di futuro, di alternativa di società e di come costruirla a partire dalle lotte nel presente.
Rifondazione è anche ancora un partito “bianco”
Non del tutto. In molte realtà grazie al nostro lavoro sociale, solidale, antirazzista, sindacale, internazionalista cresce la presenza di compagne/i stranieri. A volte entrano nel nostro partito perché ne apprezzano la solidarietà internazionalista con le lotte del loro paese di origine, a volte perché usano le nostre sedi come luoghi di aggregazione e socialità, a volte perché ci incontrano nell’impegno antirazzista o sindacale, nelle attività di sportello sociale. Un partito di classe non può che essere oggi un partito meticcio visto che della classe operaia italiana le lavoratrici e i lavoratori migranti rappresentano parte ormai essenziale. Dobbiamo investire molto su questo. Ci sono esperienze importanti di lavoro con le comunità immigrate. Cito per esempio la casa del popolo di Torpignattara a Roma o quella di Padova. Il nostro antirazzismo è ovviamente parte di un’idea di pianeta in cui anche la disciplina dei confini è parte di una politica di guerra. La riaffermazione del principio ispiratore da sempre del nostro movimento – “proletari di tutti i paesi unitevi” – è la stella polare con cui orientarci, in cui lo spostamento delle persone è un diritto a percorsi individuali e collettivi di affrancamento, di capacità di modificare le società, di rompere un rapporto che continua a permeare i nostri sistemi legislativi e la nostra cultura dominante e che è ancora di carattere coloniale. So bene la forza di posizioni rossobrune su settori del mondo popolare ma inviterei a rileggere Lenin sull’immigrazione per non perdere la bussola. Il mondo che vogliamo contribuire a realizzare deve abbattere una gerarchia imperialista fondata sul suprematismo e sullo sfruttamento.
Quale pensi sia oggi la missione di Rifondazione Comunista?
Nel 1991 abbiamo scelto di dare vita a una formazione politica comunista che non rinunciasse alla ricerca di un’alternativa al capitalismo e di una prassi politico-sociale delle classi lavoratrici che faccia i conti e vada oltre i limiti, gli errori e le sconfitte delle socialdemocrazie e del comunismo novecenteschi. È una ricerca e un compito che riguarda la nostra epoca e non solo il nostro partito. Dopo il 1989 c’è chi è andato a ingrandire le schiere dei neoliberisti o del centro moderato e chi ha tentato di rifondare un punto di vista e un progetto anticapitalista. Noi siamo parte di questa ricerca, che non riguarda solo il nostro paese, con una storia nostra – quella del comunismo e del movimento operaio e socialista italiano, dell’antifascismo, della nuova sinistra. Chavez lo chiamava socialismo del XXI secolo. Molti pensano che si possa essere comuniste/i o anticapitaliste/i sul piano individuale dentro un contesto nuovo, noi abbiamo pensato che fosse necessaria una soggettività organizzata che altrimenti non si riesce a difendere un punto di vista autonomo e si viene trascinati dalle correnti dell’opinione dominante sempre più riprodotta dentro flussi comunicativi orientati e controllati dal capitale. Credo che nonostante l’indubbia serie di sconfitte e scissioni abbiamo da rivendicare una storia di resistenza e anche di innovazione politica e culturale. Il nostro comunismo democratico, libertario, femminista, ecologista, garantista, internazionalista, intersezionale non è per nulla un pensiero debole. Certo va controcorrente persino rispetto alle correnti che vanno controcorrente. Dobbiamo fare un buon uso di Marx e Gramsci. Come costruire un partito della classe lavoratrice nel XXI secolo? Quale socialismo? Cosa significa per noi dirsi comuniste/i? Non sono questioni per nulla scontate. Cosa significa oggi partito? Dovremmo discutere di più dei nostri compiti strategici e meno anchilosarci nelle solite dispute correntizie.
Rifondazione fatica a divenire un partito del XXI secolo, capace di coniugare radicamento nel territorio e uso della rete
È un errore pensare che le forme di lotta e di lavoro politico, sociale e culturale del passato siano da cestinare perché ci sono pc, tablet e cellulari. Se guardiamo per esempio alle formidabili campagne di Melenchon, Corbyn o Sanders sono tese a usare la rete per riattivare forme di militanza e attivismo territoriale, per suscitare e mobilitare energie e intelligenze, per organizzare volantinaggi e porta a porta, promuovere eventi culturali e manifestazioni. È evidente che il nostro modello fondato sul circolo territoriale non funziona laddove si dirada la nostra presenza per riduzione del numero delle/i militanti e delle/gli iscritte/i. Radicamento e uso della rete sono complementari ma senza il secondo non riesci neanche a mantenere le forme tradizionali di lavoro politico che rimangono essenziali. C’è molto da fare, inventare, sperimentare, socializzare.
Una delle criticità da affrontare risiede al nostro avviso nel nodo della rappresentanza nelle istituzioni. I sistemi elettorali maggioritari sono nemici e tendono ad espellere chi non ha dietro di sé grandi lobby. Sovente persone che la pensano come noi non ci votano perché ci reputano non in grado di eleggere.
In che modo si dovrebbe affrontare tale questione?
È evidente che le leggi elettorali in Italia sono state scritte per imporre un bipolarismo forzato e con le soglie di sbarramento l’esclusione delle formazioni non omologate. Ricordo che parliamo di leggi elettorali incostituzionali. Rifondazione già ai tempi di Bertinotti, prima della scissione del 2008, faceva fatica quando era al di fuori dei poli. Figurarsi noi dopo 16 anni di invisibilità mediatica ed erosione della forza militante. È dal 2008 che facciamo i conti con questa difficoltà enorme. Anche i centristi, pur supportati da tv, grandi quotidiani e con le risorse che gli arrivano dalle imprese, non sono riusciti a far decollare il loro terzo polo. In altri paesi europei la sinistra radicale non è sotto il ricatto del voto utile perché le leggi elettorali sono proporzionali o, come in Francia, a doppio turno. Noi abbiamo fatto la scelta di presentarci in alternativa ai poli esistenti per ragioni sacrosante di fronte alla deriva neoliberista del centrosinistra, ma per una serie di fattori – molti dei quali non dipendenti da noi – non siamo riusciti a costruire un polo alternativo in grado di superare gli sbarramenti. Questo alla lunga pesa sulla percezione che ha di te l’elettorato. Dobbiamo sicuramente rilanciare la contestazione del carattere antidemocratico di leggi elettorali che negano la rappresentanza a milioni di cittadini. L’astensionismo sempre più elevato dimostra che questo sistema non funziona sul piano democratico, rende il parlamento sempre più distante dal paese. La lotta per la proporzionale e contro gli sbarramenti antidemocratici è una priorità assoluta ma ha qualche possibilità solo se si riesce a far capire che non è un problema di quelli che vengono definiti partitini ma della maggioranza delle cittadine e dei cittadini, delle classi lavoratrici che non contano più nulla in un sistema politico come quello affermatosi dagli anni ‘90, della democrazia stessa sempre più svuotata. Dall’altro lato bisogna fare politica tenendo conto delle regole del campo su cui si gioca e quindi ragionando su come costruire dinamiche che consentano di non essere stritolati dal bipolarismo. Ovunque in Europa o in America Latina i partiti della sinistra anticapitalista e antiliberista elaborano tattiche per cercare di non essere marginalizzati e cancellati.
Si è aperta la fase congressuale. Non è sicuramente facile, viste anche le note lacerazioni interne al Partito per molte/i difficili da comprendere. Cosa ti auguri e cosa ti senti impegnato a fare?
Per quanto mi riguarda ho sentito il dovere di aprire una riflessione nei nostri organismi che mi ha fatto tacciare di essere seminatore di dubbi. Lo ritengo un complimento perché nella nostra tradizione, da Marx a Brecht fino a Ingrao, il dubbio è sempre stato elogiato rispetto alla riproposizione di schemini che a volte sono tanto chiari e distinti quanto inefficaci. C’è chi pensa che bisogna dare la linea a compagne/i, io penso che dobbiamo camminare domandando perché troppe cose non hanno funzionato. Dato che da anni c’è una lenta scissione invisibile di compagne/i che se ne vanno silenziosamente e di circoli che chiudono non penso che possiamo evitare di interrogarci. Penso che abbiamo il dovere di fare un bilancio dell’ultimo quindicennio e con coraggio essere capaci di adeguare la linea alla fase che stiamo attraversando. Dovremmo tenere sempre presente la lezione di Gramsci e Terracini in carcere che riflettono sulle ragioni della sconfitta e mettono in discussione le tesi trionfalistiche e il settarismo dei loro compagni. Analizzare le difficoltà che abbiamo incontrato nel realizzare i nostri propositi invece di declamarli reiterandoli all’infinito. Dobbiamo aggiornare l’analisi del quadro politico che è profondamente cambiato e non fare finta che sia sempre tutto uguale. Nella nostra area sono stati tanto esaltati prima Podemos poi Melenchon senza però analizzarne la grande capacità di iniziativa politica e di adeguamento della tattica nei differenti contesti che si determinano cercando di non farsi mai rinchiudere in uno spazio minoritario. Cosa non funziona nella nostra maniera di concepire la costruzione di una sinistra di alternativa? È tale perché non si allea ovunque e dovunque col PD o perché riesce a far avanzare nella società e nelle scelte politiche e amministrative elementi di alternativa, a rilanciare effettivamente le lotte? C’è la destra al governo e batterla non può essere problema solo degli altri. La costruzione di una sinistra di alternativa non può essere perseguita isolandosi ma, come in Francia e Spagna, entrando nello scontro politico con autonomia e con la forza delle nostre idee e proposte. Bisogna contribuire a dare un orientamento coerentemente rivolto all’attuazione della Costituzione, sociale e antiliberista all’opposizione al governo Meloni e ai suoi progetti di stravolgimento di quel che resta della democrazia costituzionale e alle sue politiche classiste e reazionarie e alla sua costante opera di riscrittura della storia. Dobbiamo sviluppare e consolidare la nostra analisi del quadro internazionale da un punto di vista di classe e anticapitalista non meramente geopolitico. Dobbiamo affrontare la crisi e la frattura che attraversa la sinistra europea di cui siamo parte. Non vedo soluzioni identitarie e nemmeno settarie alle difficoltà che attraversiamo che se fossero solo nostre non sarebbe neanche un problema. Quando metà della popolazione non vota, non si danno da anni grandi ondate di lotte sociali, quando la destra raccoglie un forte consenso popolare c’è molto da aggiornare anche rispetto all nostre analisi della società italiana. Andiamo giustamente orgogliosi del non essere mai stati subalterni al PD, credo che dobbiamo evitare di esserlo nei confronti di altre formazioni della sinistra radicale. Rifondazione comunista credo che, con la massima apertura e pazienza unitaria che ci contraddistingue, debba aprire una riflessione che segni la riapertura di un percorso non risolvere tutto in una conta sui soliti schemi.
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