di Paolo Polinori - PD Perugia.

In questi giorni di agosto il mondo dell’informazione ha posto attenzione ai dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), Dipartimento delle Finanze. I dati sono stati rielaborati in forma grafica dal Sole 24 ore e fanno riferimento all’anno d’imposta 2016.
A fronte dell’importante ruolo informativo svolto dalla stampa, come spesso accade, da più parti si è cercato di attribuire la responsabilità dei risultati economici negativi o di appropriarsi di quelli positivi.
In questo quadro emerge l’intervento dell’assessore Calabrese secondo il quale esiste un “enclave” Umbra, il comune di Perugia, che dovrebbe rendersi un modello di riferimento visto che nel panorama regionale è l’unico, insieme a Corciano, al di sopra della media nazionale come percentuale di contribuenti con un reddito imponibile di almeno 55.000 (Perugia 5,75% vs 4.34% del dato nazionale)  e si trova sotto alla media nazionale, qui in compagnia di numerosi altri comuni umbri (Corciano, San Giustino, Polino, Città di Castello, solo per fare alcuni nomi), come percentuale di contribuenti con un reddito imponibile non superiore ai 10.000 euro (24,9% Perugia vs. 29,13% Italia). In due parole, volendo banalizzare, “ricchi e poveri”.
Questa esternazione, che riflette una visione provinciale e miope, lascia interdetti almeno per due ordini di motivi.

In primis, una valutazione fatta solo sui valori estremi del reddito ha senso se ci si riferisce all’equità. Il contenimento dei “poveri” è sicuramente un dato importante ma essendo questo un campo di azione di pertinenza prevalentemente regionale il risultato, qualora confermato, sarebbe in larga misura riconducibile alla regione grazie alle sue politiche sociali (Ricordiamo però che questi dati sono al lordo di elusione ed evasione fiscale). Ma in questo confronto proposto da Calabrese i dati sui “ricchi e poveri” sono addirittura presi per elevare Perugia a modello regionale.
Queste due “fasce di contribuenti” rappresentano per Perugia il 30,6% del totale contro il 33,4% del dato nazionale; quindi non solo la differenza è al quanto contenuta ma soprattutto lascia fuori dalla valutazione anche tutto quello che una volta veniva chiamato il ceto medio che è compreso nel restante 70% dei contribuenti, ceto medio che negli ultimi anni è stato sempre più interessato da fenomeni di impoverimento e di marginalizzazione sociale.
Troppo poco, quindi, analizzare il 30% dei contribuenti per poter parlare di “modello Perugia”.

Secondariamente, questa osservazione lascia interdetti anche per la natura del confronto messo in atto. Sia perché si confronta il comune capoluogo con gli altri comuni della regione; sia perché il confronto è fatto con riferimento ai dati medi nazionali.
Sono due ulteriori debolezze sia dal punto di vista dell’analisi economica che dei risultati a cui si giunge con questa analisi, risultati che sono chiaramente scontati e deboli. Perugia merita di più e soprattutto meriterebbe un'idea di sviluppo che aspiri ad avere come parametri di riferimento città non solo italiane ma anche europee.  

Ciò premesso, si può dal confronto proposto dall’assessore Calabrese giungere a dire che il comune di Perugia rappresenta un modello di riferimento?
La risposta è chiaramente no.

In primo luogo il confronto appare immediatamente inusuale e debole per le diversità esistenti tra i 92 comuni umbri, diversità in termini di dimensioni, di struttura produttiva, di composizione della forza lavoro e/o del grado di infrastrutturazione, solo per fare alcuni esempi. L’unica realtà comparabile con Perugia (reddito imponibile per contribuente di 21027 euro nel 2016), ovvero il comune di Terni (reddito imponibile per contribuente di 19499 euro nel 2016), è stato pesantemente colpito dalla crisi nel tessuto industriale e si colloca al di sotto dei dati nazionali non potendo, per sua sfortuna, contare su un settore pubblico importante come può fare la città di Perugia dove insistono la Regione e due Atenei solo per fare degli esempi.  Settore pubblico che notoriamente, a meno di “sciagurate cure modello Grecia”, consente un importante salvaguardia dei redditi nelle fasi di crisi e post crisi. Solo a titolo di esempio gli addetti delle istituzioni pubbliche sono oltre il 32% nel comune di Perugia contro il 18% del comune di Terni che in termini assoluti vuol dire un numero superiore di ben due volte e mezzo (Rapporto Urbes Istat 2015).
In secondo luogo usare nel confronto i dati nazionali come termine di paragone ha una valenza statistica limitata e manca di significato economico, oltre che di amor proprio e per la propria città. Perugia deve ambire a competere con le migliori città italiane ed europee di pari dimensione, non basta accontentarsi di stare un po' meglio del resto dell'Umbria e un po’ meglio della media italiana; chi si limita a questo non ha a cuore il futuro della Città.
Il declino di Perugia si arresta se si guarda all'Europa e non al proprio ombelico o tornaconto elettorale.
Anche volendo limitarsi all’Italia, storicamente l’Umbria e Perugia hanno avuto come termine di paragone il Nord Est, al limite il Centro Italia. In altre parole lo sguardo era volto verso le aree del paese economicamente più sviluppate.
Prendendo a termine di paragone i comuni capoluogo delle regioni limitrofe, da cui lasciamo fuori il Lazio per ovvi motivi, vediamo che Perugia nel 2016 non solo è dietro a Bologna, Firenze, Ancona ma anche dietro a L’Aquila.
Se prendessimo come termine di paragone anche i comuni capoluogo di provincia con cui Perugia è stata storicamente confrontata la situazione non cambia, ed il ruolo di Perugia rimane quello di fanalino di coda. Siena, Ferrara, Parma, Pavia, Padova, Modena, Reggio Emilia si collocano, nello stesso anno, a partire dai 22.000 euro con picchi superiori ai 26.000 euro per contribuente. Sullo stesso livello di Perugia si colloca Ravenna, leggermente sotto abbiamo Arezzo e Forlì.
Il segnale è chiaro, città che possono contare anche su di un settore pubblico importante (si pensi alla presenza delle università a Siena, Ferrara, Firenze, Ancona, Modena, Pavia, Padova, e Bologna) hanno delle performance superiori a quelle di Perugia riconducibili, probabilmente, ai relativi settori privati.
Ma il vero quesito è quanto questi numeri possano significare senza una visione, un progetto, un idea originale per la città di Perugia. Sinceramente è questo che ci si aspetta da chi governa la città e non un utilizzo strumentale e parziale delle informazioni statistiche.
Elevarsi a modello di riferimento sulla base di questi dati statistici è un segnale preoccupante per Perugia poiché lascia intendere, nei fatti, come l’operato fin qui svolto sia insoddisfacente anche per chi il comune lo governa. Anteporre le statistiche ai fatti è un segnale di mancanza di argomentazioni alternative valide.
In altre parole non sono bastati i soldi stanziati dai precedenti governi nazionali e dalla regione per portare argomenti su cui costruire il modello Perugia; ma questo è non sorprende dato che gli oltre 100 milioni di euro complessivi incassati dall’attuale giunta si riferiscono a progetti che erano stati tutti messi in campo dalla giunta comunale precedente: dal Mercato coperto al Turreno agli Arconi solo per fare alcuni esempi. Unica eccezione il progetto per la periferia di Fontivegge.
Citando l’assessore Calabrese, ancorché questi dati sui redditi siano una tendenza e non un approdo, triste è quella tendenza che vede Perugia segnare il passo rispetto alle sue tradizionali realtà di riferimento, soprattutto in un epoca in cui proprio dalle città ci si aspettano segnali importanti di ripresa economica, ci si aspetta la capacità di fare da traino per i territori ed i comuni limitrofi.
E allora può succedere che quando questi segnali non ci sono, e si va in cerca di argomenti per fare dell’ “enclave di Perugia” un modello per tutta la regione, si possa scivolare nell’insostenibile leggerezza dei confronti.

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