Le “Elegie” del poeta umbro Properzio.
di Maria Pellegrini.
È stata pubblicata, per le prestigiose edizioni della Lorenzo Valla, una nuova edizione delle Elegie di Properzio, (novembre 2021, due volumi pp. 496, € 50,00) a cura di Paolo Fedeli, noto per la sua attività di ricerca filologica. Nell’’introduzione e nelle ricche note al testo Fedeli pone al centro della poesia e della vita di Properzio una donna, sul modello di Catullo, contrapponendosi a quella che di fatto è la cultura dominante: i valori della Roma repubblicana che Augusto vuole ripristinare
Tracciamo in proposito una breve biografia di Sesto Properzio:
Nacque in Umbria, probabilmente ad Assisi, intorno al 50 a. C. La sua famiglia subì confische dopo la battaglia di Filippi (42 a.C.) in seguito alla spartizione delle terre fra i veterani della guerra civile, e lutti durante la guerra di Perugia (41-40 a. C.). Ancora giovane si recò a Roma. Agli studi giuridici e alla carriera forense preferì la poesia e la frequentazione di ambienti letterari, fino a essere ammesso (forse nel 28 a.C.) nel circolo di Mecenate. Cantò gli amori burrascosi con una donna chiamata Cinzia. Scrisse unicamente elegie (raccolte in quattro libri), soprattutto di argomento amoroso. Nel quarto libro, su suggerimento di Mecenate, incluse le cosiddette “Elegie romane” con la rievocazione di miti e leggende della tradizione romana e italica. Il suo silenzio dal 16 a. C. in poi, lascia supporre una morte prematura, a soli trentacinque anni.
Su questo umbro cupo e passionale si è esercitata a lungo la critica più avveduta. I punti d’attacco sono stati essenzialmente tre: come spiegare la “conversione” politica di questo poeta, che aveva avuto la famiglia decimata nella guerra di Perugia, combattuta fra le truppe di Ottaviano e quella di Antonio; come interpretare il rapporto fra vita e letteratura, cioè fra autobiografia e loci communes della tradizione letteraria amorosa nelle sue elegie; e, infine, come giudicare la vasta presenza della mitologia in questa poesia che avrebbe dovuto esprimere soprattutto sentimenti.
Occorre tornare sul problema della “conversione”, comune a tutta la letteratura dell'età augustea: ma è bene notare un particolare, che finora non è stato forse messo in sufficiente rilievo.
Nel III e nel IV libro della sua silloge, Properzio, anch’egli catturato dall'abile politica culturale di Mecenate, s'indusse a cantare le glorie di Roma e di Augusto e si lasciò permeare di spirito catoniano (che all'Augusto moralista non doveva certo dispiacere). Ma è indiscutibile che Properzio riesca a insinuare la critica nei confronti dei tempi in cui vive, anche in certi passi di più stretta osservanza augustea. Ad esempio, nei versi in cui il poeta auspica una campagna contro i Parti, che recuperi le insegne perdute nel disastro di Carre (in cui trovò la morte il triunviro Crasso), e immagina le legioni che sfilano, egli parla di sé come di un semplice spettatore che si guarda bene dal partecipare alla spedizione e preferisce applaudire, tenendo stretta a sé la sua amata: ingenuità di patriota neofita o intonazione sottilmente beffarda?
Per di più, la conclusione della I elegia del IV libro suona fortemente critica sull'attualità: «Gli odierni figli di Roma non hanno nulla dei padri se non il nome: / non crederebbero che una lupa è stata la nutrice della loro stirpe».
La conversione di Properzio è stata autorevolmente definita (da Antonio La Penna) “integrazione difficile”. Credo sia lecito spingersi ancora oltre su questo argomento: ai poeti di quegli anni difficili non restava altra scelta che quella di “integrarsi”. E allora ecco Properzio scrivere le “Odi romane” e assecondare le richieste di Mecenate, ma inserire inosservato qualche verso, che contesti l'intero argomento apologetico di un’elegia. Più che di “integrazione difficile” si dovrebbe parlare dunque di “integrazione ambigua”.
Egli si sente “schiavo d'amore”: l'amore per lui è servitium, “schiavitù”, furor, “follia”, e persino nequizia, “perversione”, ma anche ineffabile, incoercibile, inebriante stato di grazia, oscillante tra sfrenata sensualità e sublimazione sentimentale. Nella sua poesia si alternano gelosia, sensualità, irruenza passionale, espressioni di una quotidianità carnale, ma anche slanci dell'animo, allucinate fantasie, che trasformano continuamente l'amata Cinzia in deliziosa puella, poi in esperta e matura signora, poi ancora in spudorata traditrice, poi essere di nuovo rappresentata come amante trepida, gelosa e devota, e persino creatura annullata dalla morte, quindi fantasma che appare e sembra offrirsi agli abbracci, ma fugge corrucciata nell'ombra (un ricordo della Didone che, nell'oltretomba, si sottrae alla vista del “fedifrago” Enea).
Esempio tipico di tale “ambiguità” properziana è l'elegia dedicata alla vergine vestale Tarpea, che s'innamora perdutamente del condottiero nemico, Trito Tazio, e, soggiacendo alla sua cieca passione, tradisce il padre e apre le porte della città all'amante, che invece la disprezza. Ebbene questa elegia è aperta a due interpretazioni contrapposte: una messinscena di “cosa non si deve fare”, e quindi una condanna dell'operato di Tarpea, da una parte; dall'altra, non certo un'assoluzione, ma un atteggiamento di indulgenza in nome della sofferenza d'un amore folle, che fa di se stesso il supremo valore di un'esistenza comunque votata al sacrificio. Forse, ancora una volta, in Properzio entrambe le interpretazioni sono valide: per cui potremmo definire Properzio (se proprio si vuol definire l'indefinibile, cioè la poesia e i poeti), anche il “poeta della contraddizione”.
Cos'altro era stato d'altra parte, se non un poeta della contraddizione, lo stesso Catullo, che dell'irrimediabile duplicità dei sentimenti era stato quasi l'emblematico esemplificatore con il suo famoso Odi et amo? Properzio è il poeta forse più vicino a Catullo: ma con maggior protervia, e minor desiderio di ravvedimento. Catullo voleva guarire dall'”orribile morbo” d'amore. Properzio no: cerca conforto, distrazione, nella “poesia civile” (oppure nei vantaggi pratici che tale poesia può fruttargli), cioè in quella Musa che, in tempi burrascosi, Catullo aveva programmaticamente rifiutato. Properzio invece vive ormai negli anni della rassicurante pax Augusta e a essa tenta di conformarsi: nelle “Elegie romane” la sua poesia, sempre esperta, erudita, di alto livello letterario, suona a volte enfatica, altre volte ostentatamente nostalgica del passato, cioè dei mores antichi. Egli, il poeta dell'amore travolgente, della passione dei sensi, del traboccante vigore dei sentimenti, spesso autodistruttivo, egli, il poeta “maledetto”, canta il mos maiorum caro all’accigliato moralismo catoniano! Catullo sapeva essere limpido. Properzio è quasi sempre torbido, a volte incoerente, e quasi incomprensibile. Ma in ciò è il suo stigma e anche la sua grandezza.
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