di Fausto Bertinotti - Il Riformista.

Non so se sia integrabile, nel dibattito assai interessante apertosi sulle colonne del Riformista tra Biagio De Giovanni, Emanuele Macaluso e Massimo Salvadori, un punto di vista proveniente da una famiglia diversa rispetto a quella riformista e del socialismo liberale. Credo lo possa essere per la comune derivazione dalla storia del Movimento operaio e per la necessità di affrontare oggi il problema dell’eguaglianza come fondamento stesso della politica. A sollecitarlo è la particolare intensità e l’apertura culturale dell’intervento di De Giovanni di giovedì scorso.

Egli muove da una considerazione che potrebbe essere assunta come la premessa capace di evitare il rischio che la nuova ricerca venga impedita, o ostacolata, da un possibile fraintendimento sulla storia da cui proveniamo, o imprigionato in essa stessa. De Giovanni libera la ricerca da questo gancio con un’affermazione assai importante: il patrimonio del socialismo è costituito da una storia contrastata, ma grande, fondata sull’idea del lavoro come motore inesauribile di legame sociale, di solidarietà di classe e di molto altro ancora. Su questa base, e sul suo fondamento strutturale, il socialismo è stato protagonista di tutti i grandi conflitti del Novecento. Per quel che mi riguarda, non trovo un dissenso neppure nel dover constatare, sebbene drammaticamente, la fine di quella straordinaria impresa, cioè, la fine di un’impresa storicamente definita, quella del Movimento operaio del Novecento e delle sue forze politiche.

Il Novecento è finito e la rottura è avvenuta. Quella storia “grande e terribile” è la storia del Movimento operaio novecentesco, che aveva voluto conquistare “il sol dell’avvenire”, e che tanto ha cambiato del mondo e della vita di milioni di persone, finisce con il fallimento ad Est delle società post-rivoluzionarie e con la sconfitta ad Ovest, in Europa in particolare, intervenuta dopo il suo ultimo ciclo ascendente aperto da quel ’68-’69, che Edgar Morin ha chiamato utilmente “la Breccia”. Un modello di sviluppo che era apparso irresistibile, sospinto dal neocapitalismo, viene messo in crisi dalla combinazione di fattori strutturali e di potenti fattori soggettivi. Nell’aut-aut si afferma una rivoluzione restauratrice.

Non dovrei attribuire a De Giovanni interpretazioni che non gli siano proprie, ho troppo rispetto per il suo pensiero. Mi fermo allora alle mie considerazioni. Penso che il dissenso che può intervenire oggi, in questa parte del mondo, sulla questione del socialismo siano proprio i problemi di fondo che investono l’attuale formazione economico-sociale e il suo futuro, e cioè la natura di quest’ultimo capitalismo, le caratteristiche e le frontiere della nuova lotta di classe, il destino dell’umanità e del suo rapporto con la natura di fronte a quel rischio della catastrofe che è tornato a proporsi di fronte a noi. Eguaglianza e globalizzazione mi pare costituire la coppia che viene proposta a caratterizzare il nuovo ciclo. Sono categorie forti, ma non esaustive. Si può ben dire che la diseguaglianza è la cifra del tempo che viviamo.

Ma da cosa è originata? È il frutto avvelenato di una qualche distorsione del meccanismo di accumulazione, oppure, come io credo e soprattutto come sostiene ormai tanta parte della letteratura economica, è il tratto caratteristico proprio del capitalismo finanziario globale. Il prisma attraverso il quale si legge la natura specifica del sistema di questa globalizzazione capitalistica. L’aggettivazione capitalistica qui è decisiva. Non siamo di fronte a un processo oggettivo, a una potente innovazione tecnico-scientifica, socialmente neutrale. Essa è stata preceduta da una rivincita di classe, che ha avuto i suoi aedi in capi di governo di Paesi decisivi, dalla Thatcher a Reagan, e che ha dato vita a politiche, quali quelle neoliberista e ordoliberalista, che ne hanno accompagnato l’affermazione.

A me pare che, diversamente dal ciclo del capitalismo fordista-keynesiano, nel quale la lotta contro la diseguaglianza, base di una stagione progressiva del conflitto di classe, realizza quello che ex post si è rivelato il compromesso democratico, il capitalismo finanziario globale – insisto, non una qualsiasi forma di capitalismo, ma questa forma di capitalismo – si rivela incompatibile con la democrazia, perché indotto a funzionare attraverso una concentrazione della ricchezza senza precedenti che, a sua volta, sospinge il sistema politico a un assetto neo-oligarchico, alla ricerca di una peraltro impossibile stabilità.

Hyman Minsky aveva avvertito sulle cause strutturali, in questo assetto, della crisi di mercato e dell’instabilità finanziaria. Non è, io credo, una concessione ideologica lo scorgere in questo capitalismo, proprio in questo, la radice della diseguaglianza e dello sviluppo che produce crisi e instabilità. A questa crisi di fondo, essa cerca di rispondere innalzando l’ambizione sino a dar vita persino a una nuova antropologia fondata sull’uso capitalistico della nuova macchina tecnico-scientifica. Da parte mia, è una lente di ingrandimento di questa crisi di civiltà.

De Giovanni fa riferimento a proposito della crisi, della transizione, delle possibili opportunità che in essa si possono generare, a una bella citazione di Aldo Schiavone, di cui non nego la fondatezza. Solo che la realtà evocata, invece che essere egemone, prevalente, depositaria di una possibilità di imprimere il suo segno sull’intera società è, in realtà, solo una componente, certo di ricchezze straordinarie, ma purtuttavia una componente che resta imprigionata, suo malgrado, nella società della diseguaglianza, nel primato del mercato, nella diffusione della mercificazione, nel profitto. Da qui, l’affacciarsi persino del rischio della catastrofe. Con la Laudato si’, il Papa si è sporto coraggiosamente su questo abisso e ha visto nell’umano, nel ricorso ad esso, la necessità, la possibilità di impedirne l’esito. Sono gli stessi segni indicati da Schiavone. Ma questo umano, oggi, e diversamente da ieri, ma persino più di ieri, è attraversato dall’essere sociale dell’uomo. Ancora Papa Francesco a un incontro con i movimenti disse che «dove c’è un contadino senza terra, un lavoratore senza lavoro o senza la dignità del lavoro, una persona senza un tetto dove abitare, là c’è una società intollerabile».

E poi ha invitato i presenti a continuare a lottare. Luciano Gallino, rifiutando la tesi menzognera della fine del conflitto di classe, ha parlato del rovesciamento del conflitto di classe. Il suo fondamento: il lavoro subisce una mutazione radicale. Ha ragione Biagio De Giovanni, è mutata l’organizzazione del lavoro, la composizione del capitale, la sua distribuzione geografica. Il lavoro è destrutturato e de-soggettivizzato, mentre in alto lo domina una centralizzazione dell’economia, senza concentrazione della forza di lavoro.

Eppure, il lavoro, quello che c’è, così com’è, quello che c’è ma è negato socialmente, quello che non c’è, il lavoro, insomma, è pur sempre, nel suo insieme, una pietra d’inciampo del sistema. In tutta la sua molteplicità, che va ormai dalla schiavitù al lavoro concettuale, fino all’intelligenza artificiale, l’algoritmo può prendere il posto della catena di montaggio. Ma sono proprio gli economisti critici, gli eredi della straordinaria scuola del lavoro vivo, che ci riportano alla vitalità della categoria del lavoro astratto per indurci a indagare le nuove frontiere dell’alienazione del lavoro e dell’accumulazione, dove certo è riapparsa la spoliazione dell’umano, ma non è scomparso lo sfruttamento; dove riappare, più radicale che mai, in opposizione ad esso, il tema dell’autonomia, dell’autogoverno, della liberazione del e dal lavoro salariato.

Al Novecento non si torna né socialmente, né culturalmente, né politicamente. A maggior ragione, non si torna se parliamo dell’istituzioni politiche del suo Movimento operaio. Bisognerà continuare a riflettere sul perché i partiti comunisti, socialisti, social-democratici, laburisti sono scomparsi o sono entrati in una crisi radicale dopo il Novecento. Simul stabunt vel simul cadent. Si dovrebbe almeno convenire che con loro, tuttavia, non si eclissa la ragione prima della loro nascita, l’uguaglianza, che anzi, invece, si radicalizza nel nostro tempo. Ma qui comincia, e non finisce, la ricerca sul socialismo. Verrebbe da ricorrere al luxemburghiano “socialismo o barbarie”. Ma forse, riconoscendo che siamo stati nani sulle spalle dei giganti, dobbiamo riconoscere che essi, con la loro storia, possono tornarci utili solo oltrepassandoli. In alto, ricostruendo una nuova critica, teorica e pratica del capitalismo finanziario globale; in basso, attingendo a nuove fonti, a nuove esperienze di lotta e a nuovi soggetti critici.

Ieri, la lotta di classe le comprendeva tutte, o almeno ci provava; domani, io credo, le attraverserà, come entrando nella Costituzione di un popolo, come si è cominciato a intravedere nelle rivolte. Un capitolo della nuova storia del conflitto si fa strada in una straordinaria quantità di Paesi di tutto il mondo. Scoppiate come scintille, sono divampate senza un progetto già pronto, senza una leadership costituita a farne da guida. Dentro queste esperienze, vivono delle istanze radicali e una domanda di cambiamento così profonda che non si vede quanto e come possano essere assorbite dal sistema, né si vede come, nell’immediato, possano assorbirle i governi.

Per parlare delle esperienze in corso: quella francese, d’Algeria, cilena e di tanti altri Paesi ancora. Il residuo, l’eccedenza, quel che resta fuori oggi e domani dal sistema consente, certo non obbliga, a ripensare a un’altra e diversa società, che si può ancora chiamare socialismo, e lascia intravedere un diverso cammino nella costruzione del soggetto sociale e politico della trasformazione. Certo si tratterà di un soggetto inedito.

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