Di Marco Bascetta -

Rivolta o rivoluzione? Rispondere a questa domanda non è facile neanche di fronte ad eventi in corso a poche miglia marine dalle nostre coste. Figuriamoci allora quando fosse riferita ad eventi lontani due millenni e calati in un mondo infinitamente lontano dal nostro. Eppure è quanto tenta, con risultati assai convincenti, Aldo Schiavone nel suo avvincente lavoro sull’avventura di Spartaco, consumatasi tra il 71 e il 73 a.C.: Spartaco le armi e l’uomo (Einaudi Storia”, pp128, € 20,00). Dalla fuga spericolata dalla scuola gladiatoria di Capua alla testa di pochi compagni, fino alla sanguinosa sconfitta nella valle del Sele inflittagli dalle legioni di Crasso. Un personaggio Spartaco, che, grazie anche alla libertà che il tempo remoto concede all’immaginazione, ha esercitato un grande potere simbolico nella modernità, con tutte le torsioni che ne conseguono.

Ma non è del mito e della leggenda che qui si tratta. Lo storico si attiene a poche fonti antiche, in gran parte perdute quelle più vicine ai fatti (Sallustio e Livio), più ampie quelle di molto posteriori che alle prime si rifanno, soprattutto Plutarco e Appiano, che scrivono nella prima metà del II secolo dopo Cristo. Fonti che riferiscono prevalentemente di fatti d’arme, con pochi cenni sulla biografia di Spartaco, sulla sua personalità sulle sue intenzioni, sulle sue convinzioni, sull’organizzazione e i costumi della sua armata. Così che la ricostruzione dei suoi moventi, il suo “disegno” sono affidati ad una serie di indizi e congetture che incrociano le notizie tramandate dagli storici antichi con quanto sappiamo della società romana del tempo, del contesto e della contingenza politica che resero possibile l’impresa del ribelle trace.

In termini giornalistici si tratto di una combinazione paradossale di espansione e crisi. I successi bellici di Roma, che ne avevano accresciuto la ricchezza ( e la sua concentrazione) e l’offerta di manodopera servile, avevano altresì condotto alla rovina la piccola proprietà contadina romano-italica, che aveva costituito il fondamento - etico, sociale e militare a un tempo – della repubblica. Mentre l’emarginazione e la miseria, accompagnate dalla crescita vertiginosa della popolazione servile, dilagavano sul suolo italico, la guerra ai confini dell’impero teneva numerose legioni lontano dalla penisola. Questa circostanza, combinata con gli strascichi e i risentimenti della sollevazione italica e della cosiddetta guerra sociale (91-89 a.C.), che aveva affermato sul suolo italiano un contropotere vincente rispetto al governo di Roma, aprivano a Spartaco la possibilità di spingersi oltre la rivolta di chiaviche avesse come scopo la fuga e il ritorno in patria (nelle diverse patrie dei fuggiaschi) o un’attività di brigantaggio endemico nelle aree più impervie del paese.

Le sue stesse mosse, riferite dagli storici, sembrano escludere entrambe le ipotesi, ma anche l’opzione di fondare uno stato antiromano nelle zone liberate, come aveva tentato, rifacendosi a modelli ellenistici, la rivolta degli schiavi in Sicilia nel II secolo avanti Cristo. Salvo, forse, quasi all’epilogo della sua avventura, quando tentò, senza successo, di traghettare il suo esercito in Sicilia. Si trattò invece, secondo la congettura di Schiavone, di una “lunga marcia”, imprevedibile e ricca di colpi di scena, nel corso della quale raccogliere nel malcontento italico le forze, non più essenzialmente servili, che gli avrebbero consentito di colpire direttamente Roma, di dare l’assalto al centro del potere. Un condottiero, un conquistatore dunque, una storia di Annibale senza Cartagine, ma seguito da un esercito che si faceva sempre più forte e minaccioso. Molti indizi, diverse scelte altrimenti inspiegabili del capo ribelle, sorreggono questa ipotesi, che contraddice pienamente entrambe le interpretazioni che hanno poi prevalso nel corso della storia.

La prima, ben radicata nella tradizione e nella ideologia romana e sostenuta, per così dire, da ragioni di “ordine pubblico”, inchiodava la vicenda di Spartaco e del suo esercito a una rivolta di schiavi senz’altra motivazione che la fuga e il saccheggio, tutt’al più un fenomeno di marronage (termine con il quale si designavano nei Carabi del XVII secolo le comunità di schiavi fuggiaschi annidate nelle foreste e nelle montagne delle colonie), una contingenza sfortunata che aveva consentito alla preda di farsi temporaneamente predatore. Alla guerra di Spartaco non veniva insomma concessa la dignità di un bellun intestinum, per quanto ampi fossero i contorni di questa definizione. La seconda, propria dei moderni e soprattutto della tradizione socialista, vedeva nell’impresa del condottiero trace un vero e proprio tentativo rivoluzionario la cui posta in gioco, come nelle guerre del novecento, sarebbe stata una “alternativa di sistema”, dai tratti incerti e probabilmente primitivi, in cui dar forma alla sia pur larvale coscienza di classe della popolazione servile.

Riprendendo, ma in qualche modo travisandola, l’indicazione di Marx secondo cui solo attraverso l’anatomia dell’uomo si sarebbe potuta comprendere quella della scimmia, e cioè solo attraverso la dinamica di classe della rivoluzione industriale, la natura e il significato dei conflitti dell’antichità, si produceva una sorta di sovrapposizione. Fatto sta che la scimmia restava scimmia, comunque si arrivasse a studiare l’anatomia.
Senza addentrarmi (rinviamo per questo al classico lavoro di Moses Finley, schiavitù antica e ideologie moderne) nella lunga e appassionata discussione tra gli studiosi moderni sul “modo di produzione schiavistico” (espressione fra l’altro assai problematica), sulla articolazione complessa del mondo servile, sulla percezione di sé e della propria condizione dei soggetti che lo formavano, nonché sulla natura dei conflitti che lo attraversavano, si può agevolmente concludere sulla sostanziale assenza di qualsivoglia forma di conoscenza di classe nel mondo romano e tra gli schiavi, che non solo ne costituivano la forza produttiva, ma ne condizionavano essendone a loro volta condizionati, per molteplici aspetti, l’intera forma di vita. Dunque per tornare alla domanda iniziale, né rivoluzione, né rivolta.

E, tuttavia, se pure dobbiamo escludere una visione del mondo che contemplasse l’abolizione della schiavitù (come schiavi Spartaco tuttavia i suoi prigionieri) o una qualche forma di ideologia democratica è pur vero che un Annibale senza Cartagine, un condottiero senza patria (intesa come retroterra politico e sociale, come regno o come stato in nome del quale agire) e senza popolo (che tale non poteva certo considerarsi il melting pot dell’armata spartachista)costituiva una figura piuttosto anomala, il che spiega anche il terrore e l’inquietudine che essa creò. Una figura che doveva necessariamente pescare nella “questione sociale”, nella esasperazione e nella sofferenza degli sfruttati (sia pure con i loro caratteri disomogenei, con le loro storie irriducibili le une alle altre), far leva su un qualche senso dell’ ingiustizia patita, sull’odio verso i padroni e le istituzioni politiche che li garantivano, sulla volontà di rivalsa degli esclusi e degli sconfitti. Sul desiderio, insomma, di sottrarsi ad un feroce dominio.

Se ci riferiamo a questo sostrato “sentimentale”, ma radicato nell’esperienza materiale vissuta dagli uomini che seguirono Spartaco, allora forse gli spartachisti del Novecento qualche lontana parentela avevano pure il diritto di rivendicarla. Del resto persino la rivoluzione di Haiti del 1971, che si innestava sulla scia dell’Ottantanove francese, e che sarebbe stata la prima rivolta servile vincente nella storia, il cui condottiero Tuossaint l’Ovuerture fu celebrato come “Spartaco nero”, non esito ad imporre il lavoro coatto, e il successore di Toussaint, Jean Jacques Dessalines, non trovò di meglio che proclamarsi imperatore e dedicarsi allo sterminio dei bianchi e dei mulatti. Le rivolte degli schiavi non sono mai andate per il sottile. Anche in questo caso, tanto più vicino al tempo nostro e ai suoi fondamenti ideologici, parlare di coscienza di classe sarebbe alquanto improprio.

Tuttavia non si possono espellere i “giacobini neri”(questo il titolo del formidabile libro di C.I.R. James dedicato alla rivoluzione haitiana) dalla storia dello scontro tra dominanti e dominati, tra sfruttati e sfruttatori. All’interno della quale, con le sue peculiarità, la sua coscienza, la sua potenza e i suoi miti, si colloca anche lo scontro tra capitale e lavoro nel diciannovesimo e ventesimo secolo. Questo spiga anche perché, nonostante la ragionevole messa in guardia da parte degli studiosi, la tentazione di far risalire all’antichità la propria genealogia sia sempre rimasta una tentazione invincibile.
L’avvertenza rivolta al passato – non si possono misurare quegli e venti remoti con il metro della lotta di classe sviluppatasi insieme con il capitalismo industriale, che occupa uno spazio alquanto ristretto nella storia della umanità – vale beninteso, come sottolinea lo stesso Schiavone, anche per il futuro.

La lotta di classe, avverte, è uno schema che non può essere spinto all’indietro verso l’antichità classica, ma neanche trasportato nel mondo postindustriale. Non ci troviamo forse di fronte a stratificazioni diverse e più complesse di quelle che hanno segnato gli ultimi due secoli? Non si è forse tornati a strumenti di coazione extraeconomica che le forme del mercato riescono a malapena a mascherare? Non stiamo perfino assistendo al riaffacciarsi di forme di dipendenza di carattere sostanzialmente servile? Al divorzio evidente tra libertà e mercato, sviluppo economico e libertà democratiche? E regge ancora pienamente la separazione moderna tra la forza-lavoro e la persona del lavoratore posta a fondamento del mercato capitalistico del lavoro? O a cosa altro si riferisce il termine “biopolitica” al quale facciamo sempre più frequentemente ricorso? Tutto vero, il problema è reale, l’avvertenza metologica corretta.

Ma, attenzione la misura della distanza non è indifferente. Spartaco è ben più lontano da noi del conflitto novecentesco tra capitale e lavoro, il cui universo concettuale (democrazia, diritti, conflittualità, eguaglianza) continuiamo in larga misura a condividere anche se faticando a rielaborare questi concetti nel nuovo (o parzialmente nuovo) contesto, in una mutata composizione sociale e nelle metamorfosi subite dal lavoro, dal suo peso e dalla percezione. I rapporti di classe del mondo industriale non sono la fine o metro della Storia, ma comunque una recente premessa della sua prosecuzione.

Fonte: Civiltà

 

Condividi