Di Dino Greco

Eccolo qui, bell'e confezionato il «nuovo modo di fabbricare automobili» cui alludeva Mario Monti esaltando la "grande riforma" introdotta da Sergio Marchionne con il diktat di Pomigliano. Ecco servito l'esito ultimo dello sbancamento del sistema di relazioni industriali inaugurato con l'ultimatum («o bevi o sei fuori») imposto dall'Ad della Fiat ai lavoratori dello stabilimento campano, poi esteso a Mirafiori e alla ex-Bertone di Grugliasco. Ora, con luciferina coerenza, la Fiat chiude il cerchio. Dal prossimo gennaio tutti gli accordi sindacali stipulati negli stabilimenti del gruppo dall'origine ai giorni nostri sono revocati: un colpo di spugna spazza via tutta la storia della contrattazione collettiva accumulatasi nel corso dei decenni. D'ora in avanti, varrà il solo "modello Pomigliano" che, si badi bene, non significa necessariamente quella specifica intesa, ma ogni e qualsiasi ulteriore modifica di essa (in pejus) l'azienda ritenga di dover introdurre, a proprio insindacabile giudizio.

Marchionne, dopo avere riscritto di proprio pugno il contratto di lavoro si riserva cioè di cambiarlo ancora, secondo gusto e necessità. In quanto unilaterali imposizioni aziendali, i patti sono per lui volubili e transitori. «E pregate che non voglia cambiarli ancora», sembra intimare con gangsteristica arroganza a chi non intende piegarsi. Come risuonano patetiche le parole di quei dirigenti del Pd che accoglievano la "svolta" di Pomigliano come una dura necessità e, comunque, come un'eccezione destinata a non ripetersi. Del resto, non è forse questo il disegno confindustriale sotteso all'indebolimento, sino alla progressiva estinzione, del contratto nazionale per sostituirvi un sistema derogatorio aziendale dentro il quale cento, mille Marchionne possano crescere indisturbati, annichilendo ogni soggettività del lavoro, con il beneplacido di sindacati corrivi? Come ognuno può vedere, la tenaglia sta chiudendosi anche sullo Statuto dei lavoratori.

Da quando il nuovo governo si è insediato ed Elsa Fornero ha impugnato le redini del welfare, Pietro Ichino salta come un grillo da una tribuna mediatica all'altra per annunciare la ormai prossima liberalizzazione dei licenziamenti senza giusta causa, venduta al pubblico più sprovveduto come un'enzima per la crescita ed un'opportunità per i più giovani. Il Pd, ormai imbrigliato nella tela del ragno, dopo aver a lungo protestato la propria estraneità alle tesi del giuslavorista milanese, si appresta a farle proprie, se Bersani si è permesso una fregnaccia come quella che «in fondo l'articolo 18 riguarda soltanto una minoranza di aziende e di lavoratori». Come se all'estensione di un sacrosanto diritto a tutti coloro che ne sono privi fosse preferibile la cancellazione tout court del medesimo. Tutti gli argini sono ormai rotti. Anche quelli - fragili - che ancora impedivano l'ennesima e questa volta letale incursione sulle pensioni di anzianità. Con una aggravante che rende il gioco insopportabilmente cinico. Quella di un neo-presidente del Consiglio che, nel mentre candidamente conferma il perfetto equilibrio e la piena sostenibilità del nostro sistema previdenziale, si appresta ad autorizzarne la definitiva manomissione, estendendo erga omnes il metodo di calcolo contributivo ed elevando a 63 anni il requisito anagrafico necessario.

Anche su questo - si aprono le scommesse - il Pd farà la piega ed opererà con solerte diplomazia perché la Cgil riduca al minimo la deterrenza sociale. Perché i Democrats, col passare delle ore, vedono sempre più il governo "tecnico" come il proprio governo e Mario Monti come il proprio premier. E non occorrevano i servili pizzini di Enrico Letta a farcene persuasi. In fondo, la boutade di Italo Bocchino che aveva indicato il professore come potenziale leader di un futuro schieramento di centrosinistra non è solo la rodomontata di un guascone. Noi avevamo già sottolineato come nell'abbandono, da parte del Pd, dell'opzione elettorale e nell'adesione ad un governo retto da uno schieramento bipartisan, vivesse una scelta politica, anzi una svolta, molto netta e difficilmente reversibile, verso destra. Quello che accadrà nei diciotto mesi che ci separano dalla conclusione della legislatura lo confermerà. Giorno dopo giorno, misura dopo misura.

Dovrebbe finalmente prenderne atto anche Nichi Vendola, smettendo di baciare la "foto di Vasto" che custodisce come un cimelio, e ristabilendo un dialogo e una collaborazione a sinistra da cui fino ad ora si è ostentatamente tenuto lontano. Le scorciatoie - illusorie e prive di contenuto - verso il potere sono sempre una tentazione pericolosa, ma ora sono tramontate anche quelle. E forse comincia ad ingrigire anche la stagione del leaderismo, dei partiti personali che hanno ammorbato questa lunga, decadente fase della politica italiana. In questo pericoloso tempo di risacca, si dà sul serio un'opportunità per una sinistra che sappia unirsi ed elaborare una strategia di profonda trasformazione della società italiana.

Il popolo di questo paese, la sua parte migliore, ha già dimostrato di saper apprezzare idee di cambiamento radicale, tanto più necessario di fronte alla miseria del presente. Alla deriva tecnocratica, al governo elitario degli ottimati, all'oligarchia classista e proprietaria della grande borghesia si può contrapporre un altro progetto, fondato sulla dignità del lavoro, sull'espansione della democrazia e su una rivoluzionaria concezione della proprietà. Ipotesi che può apparire fuori dalla realtà soltanto finché non c'è in campo, consapevole e non timorosa di sé, una forza capace di tematizzarla e di perseguirla con tutta la determinazione necessaria. Le elezioni spagnole di domenica, lo straordinario risultato ottenuto da Izquierda Unida è lì a dimostrare che un legame riconoscibile fra il movimento antiliberista di questi mesi e la sinistra di alternativa può battere anche il bipolarismo e l'infame legge elettorale che lo sostiene e lo riproduce.

Fonte: Liberazione

 

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