di Eleonora Forenza (da Liberazione, 13 Febbraio 2011)

Eh sì.. l’arrotino deve aver saputo che in piazza ci siamo anche noi, con le nostre parole e le nostre pratiche. Noi che vogliamo affilare le lame della nostra intelligenza e della nostra passione politica perché pensiamo che l’indignazione non basti per produrre una radicale trasormazione. Noi che in piazza porteremo l’ombrello rosso per ripararci dall’ombra, dall’ombra lunga del Cupolone. Noi che speriamo che mille riot ci aiutino a riannodare il filo della “rivoluzione più lunga”, quella femminista, che ha prodotto non solo un avanzamento dal punto di vista legislativo, ma soprattuto un radicale cambiamento nel senso comune: appunto una rivoluzione nella società, nella cultura, nella politca diffusa ancor prima che nelle istituzioni. Noi che, come scriveva Carla Lonzi, «cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta, e non lo sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo». Tantomento al perbenismo.

Noi che siamo tutte egiziane, perché pensiamo che dalla società, e non dagli accordi di Palazzo, possa partire un cambiamento reale della politica. In Egitto come in Italia. E quindi sentiamo su di noi quotidianamente («se non sempre, quando?» recita giustamente il documento di alcuni collettivi femministi) la responsabilità di agire il cambiamento.

Noi che siamo tutte egiziane, perché non lasciamo sola nessuna, neanche la nipote di Mubarak. Perché rifiutiamo ogni distinzione tra donne perbene e donne permale.

Noi che non siamo indignate, ma furiose tutti i giorni, per i casi di femminicidio relegati alla cronaca nera.
Perché siamo precarie e vogliamo reddito per tutte. Perché siamo anziane, siamo giovani madri e la mancanza di welfare ci toglie libertà. Perché siamo lesbiche, e quindi ci tolgono diritti. Perché ci stuprano in casa, nei Cie, e rispondono “sicurezza”. Perché la violenza maschile è condotta di Stato.
No care, questa non è una mignottocrazia. Magari lo fosse!

No, il problema è il potere dei nani, non la premiata ”buona condotta” delle onorevoli ballerine. La regressione sociale, culturale, politica che viviamo si può capire davvero solo indagando il nesso fra neoliberismo autoritario e nuove forme del dominio maschile, tra crisi del capitalismo e crisi del patriarcato. Come il capitalismo, il maschile in crisi non smette di produrre dominio, anzi diviene più violento proprio perché non più egemone.

Sia chiaro: per noi la fine del governo Berlusconi è esigenza primaria. E infatti vogliamo uno sciopero generale (questo sì, se non ora, quando?)e generalizzato, diffuso, che blocchi i flussi di merci e i flussi di comunicazione, le strade, i binari. La nostra rivoluzione quotidiana non prevede deleghe, ma partecipazione e conflitto nella società, nei luoghi di studio, di lavoro, nei partiti, nelle case. Perché sappiamo che non basta mandare a casa Papi, ma occorre produrre un nuovo senso comune: Berlusconi è una icona del maschio italiano, il berlusconismo è un’autobiografia della nazione, dell’italietta sessista e perbenista. I corpi che diventano merce ci parlano non solo di un processo onnivoro di mercificazione, ma anche di una sessualità maschile incapace di relazione tra soggetti, e che ha bisogno di esibire potere, di renderti oggetto. Per noi la relazione tra i sessi è questione politica, e la questione morale non è indagine scandalistica nel privato, ma connessione tra personale e politico: è critica del potere, trasformazione della politica da luogo di dominio maschile in spazio pubblico, processo di liberazione di donne e uomini.

Vi chiediamo allora, quando passa l’arrotino, di non fare le brave bambine italiane, di non restare in casa, ma di scendere in piazza, affilare gioiosamente le lame, e andare ovunque. Dobbiamo far vibrare tutti i giorni questa oscena italietta con le nostre dita affilate, per etica della responsabilità e principio di piacere. La libertà è sempre nelle nostre mani. Per questo oggi, come sempre, siamo in piazza indecorose, libere e ribelli. Siamo tutte ladies riot, più autoderminate che mai. 

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