di Lea Melandri

"Dovreste ascoltarmi come s'io sognassi..." (Sibilla Aleramo).
Dagli di studi liceali e dall’università sono uscita con la consapevolezza che gran parte della mia vita fosse rimasta fuori dalle aule scolastiche, o “fuori tema”, come venivano a volte giudicati i miei scritti, ritenuti, per altro invece formalmente lodevoli. L’incontro, a Milano, dopo la fuga dalla provincia e proprio quando mi accingevo ad assumere il “ruolo” di insegnante, con la “pratica non autoritaria” e col movimento delle donne, è stata una specie di rivoluzione copernicana: corpo, sessualità, relazioni parentali, vita affettiva, considerati materia “intima”, privata, e come tale estranea ai saperi, ai linguaggi colti, così come alle grandi questioni della politica, acquistavano un’inedita cittadinanza e legittimità. Il “fuori tema” diventava il tema.»
L’esperienza più “impresentabile”, dissepolta e restituita alla parola, allo sguardo di una collettività attenta, veniva a occupare un posto di primo piano in quella “narrazione di sé” che è stata l’“autocoscienza”, pratica politica anomala, originale, del femminismo: un “fare e disfare”, una rilettura della storia personale fatta di andirivieni, sogno e lucidità di analisi, sostenuta o contraddetta dall’attenzione di altre donne, un guardare e essere guardate nei risvolti più profondi, spesso inconsapevoli, di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa” (Sibilla Aleramo).
Era un narrarsi particolarissimo, affidato prima alla parola e solo in un secondo tempo, quando ci si rese conto dei mascheramenti che essa opera e dei non-detti che contiene, alla scrittura: una costruzione che si può guardare alle spalle, negli anfratti, capace di accogliere la solitudine del singolo, il chiuso di una stanza, ma anche la relazione con gli altri e col mondo, il narrare e il riflettere.
All’inizio degli anni Ottanta, il campo di osservazione si allarga e si approfondisce, in coincidenza con una lunga analisi. Vengo colta con mia sorpresa da una scrittura per me insolita, fatta di frasi brevi, frammenti segnati da un sottofondo emotivo, legato a vicende della vita personale. Sono dello stesso periodo, forse non a caso, la scoperta di Sibilla Aleramo, le rubriche di posta del cuore e di scritture del privato sul settimanale Ragazza In (1981-1983) e su Noi donne (1990-1993). Un rilievo particolare assumono anche le scritture che nascono all’interno dei corsi delle donne, emanazione dei corsi 150 ore, in cui già insegnavo dal 1976.
È il momento in cui mi si fa più evidente la parentela tra scritture considerate di scarto – lettere, diari, note sparse – e scritture colte, tra il sentimentalismo attribuito alle donne e uno dei miti più duraturi del pensiero maschile: l’ideale androgino, la “mente creativa” di cui parla virginia Woolf in Una stanza tutta per sé.»
«Mi sembra importante dire che tutte queste scritture – dall’Aleramo a Michelstaedter, Nietszche, Freud, che compaiono nel mio libro Come nasce il sogno d’amore – non sono state trattate come materiale di studio. Le ho accostate con un procedimento che chiamerei di riscrittura: pedinare il testo, ricalcarlo, lasciarsi sedurre dalle parole dell’altro, fondersi o confondersi con esso, e poi scostarsi quel tanto che permette di poterlo mostrare, decantare, scoprirne il senso nascosto, il non-detto».
Con un movimento opposto a quello dell’autobiografia, preoccupata di comporre la frammentarietà in un tutto omogeneo, la rilettura/riscrittura cerca nella dispersione del senso la strada per avvicinarsi a una percezione più reale di sé. Il femminismo degli anni Settanta con la pratica collettiva del “narrarsi”, è come se avesse frantumato lo specchio in cui qualcuna aveva sperato di vedersi a tutto tondo. Per la costruzione di un sé più autonomo da modelli interiorizzati era necessario lo sguardo di altre donne, la disponibilità a interrogare la trama profonda del proprio essere, a riconoscere i molti volti e voci che ci abitano.
È come se fosse necessario “forare” incrostazioni di superficie, mettere in atto quella che Asor Rosa chiama una “mineralogia del pensiero”, costruire canali sotterranei, riallacciare percorsi nascosti, “imparare un’altra lingua”. Questa è, per certi aspetti, la finalità di una “scrittura di esperienza”: imparare la lingua ibrida del mondo interno, sfatarlo dei suoi miti, scoraggiarne il silenzio, riconoscere i “tesori di cultura” che nasconde, dare un nome alle “cose che non siamo stati ancora capaci di nominare”. E sono ancora tante.

Fonte: profilo Facebook Lea Melandri

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