di Paolo Favetta, coordinatore regionale de "La Cgil che Vogliamo"

                                                            MA E' AFFAR NOSTRO

Sento incalzante l’esigenza di esprimere alcune considerazioni che riguardano il posizionamento ideale della nostra organizzazione all’interno di una discussione sempre più flebile e accodata sulle questioni di politica internazionale.

Vedo in questo atteggiamento una sorta di ripiegamento egoistico e storicamente datato, una pigrizia mentale, una rassegnazione etica che, lungi dal favorire ipotesi di avanzamento sociale, provoca l’afasia culturale del movimento dei lavoratori.

E’ necessario richiamare l’attenzione su quello che sta accadendo nell’intera area del mare “nostrum”, nel mediterraneo, in cui intere popolazioni rivendicano il diritto all’autodeterminazione, al benessere, alla pace. A questi aneliti è giusto rispondere ancora una volta con un atteggiamento che altro non è che la solita arroganza imperialistica mascherata di paternalismo e armata di congegni mortali e distruttivi?
Ci troviamo di nuovo di fronte al solito becero occidentalismo, che pretende di esportare cultura, valori, modelli di sviluppo e che si precipita in nome della democrazia, una democrazia scritta da storie altre, a difendere con le bombe nient’altro che i propri interessi.

E, d’altro canto, è giusto per le forze che si richiamano ai valori della sinistra, rinunciare al diritto di adeguare la propria elaborazione, di misurarla con gli eventi della storia, di confrontarla con il mutare dei tempi e delle circostanze? Io non credo, anzi sono fermamente convinto che il mondo del lavoro debba recuperare il proprio protagonismo e la capacità di rimescolare le carte del progresso agendo in favore dell’umanità “dolente” che in tanta parte del Pianeta soffre la fatica di vivere in dignità.

E’ giusto voltarci da questa parte a guardare soltanto i nostri problemi, gravi e reali, ma con una lente calibrata sulla miopia sociale, storica e politica?

Per questi motivi io ritengo che lo sciopero del 6 maggio con la manifestazione regionale di Terni, debba essere un’occasione per riflettere sulle ragioni che devono spingerci a ritrovare l’orgoglio di una storia e di un’elaborazione politica che non può prescindere da un respiro globale, connotato dalla mondialità dei valori, primo fra tutti il bisogno di pace. La pace è negoziato, confronto dialettico e serrato, autodeterminazione, formazione, condivisione dello sviluppo. Le guerre giuste sono guerre, alibi agghiaccianti dietro ai quali non ci possiamo più riparare.

Dalla nostra terra, simbolo riconosciuto del bisogno universale di pace, la terra del francescanesimo, la terra di Aldo Capitini e della marcia, salga la voce dei lavoratori a riaffermare un codice genetico che non possiamo smentire.
 

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