Quello sguardo amaro: i volti di Cesare e Cesarione. Intervista a Paolo Moreno
di Giovanni Corazzi
Giusto un anno fa, nella nostra Umbrialeft veniva pubblicato un articolo in cui si parlava di una grande mostra, iniziata allora da qualche settimana (ottobre 2009) nel centro francese di Arles (presso il Musée départemental Arles antique) e dedicata agli oggetti riemersi dal fiume Rodano (riva destra, all’altezza, appunto, della cittadina provenzale) nel corso di una ventennale campagna condotta dal Drassm, il dipartimento ministeriale francese delle ricerche archeologiche, subacquee e sottomarine, guidato da Luc Long. La mostra si è da poco conclusa (il termine del settembre 2010 è stato prorogato fino al 2 gennaio 2011) e, a giudicare dai quasi quattrocentomila visitatori - non solo francesi - che ne hanno ammirato gli oggetti, ha riscosso un successo notevole. Risultato ascrivibile, in massima parte, al pezzo-principe dell’esposizione: l’ormai celebre “volto del Rodano”, che, se anche non rappresentasse Cesare (cosa improbabile, secondo i più), è divenuto famoso in mezzo mondo quanto il dittatore romano. I lettori di Umbrialeft ricorderanno come il Long sin dall’inizio avesse proposto senza esitazioni il nome di Cesare per il busto riemerso. Tale attribuzione, sebbene confermata da studiosi di valore quali lo storico Christian Goudineau (un classico il suo saggio su Cesare e la Gallia) e l’esperto di iconografia cesariana Flemming Johansen (autore di un importante lavoro del 1967, revisionato vent’anni dopo, dedicato ai ritratti in marmo di Cesare), è stata inizialmente contestata da altri studiosi, che hanno pensato a un magistrato romano o a un notabile di Arles. Fin dall’annuncio della scoperta (maggio 2008) era intervenuto al dibattito uno dei più importanti archeologi italiani, Paolo Moreno, docente a Bari, poi a La Sapienza e a Roma Tre, autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche e divulgative. Il Moreno ha toccato la questione anche nel 2009, con l’interessante ed elegante volume Cleopatra Capitolina (Editinera), e lo scorso ottobre in una lezione tenuta a Torino in occasione del «FestivalStoria». I suoi interventi hanno fornito nuove indicazioni sul ritratto, inserendolo in un ampio contesto che abbraccia il tratto mediterraneo da Arles ad Alessandria e che parla di una famiglia tanto grande quanto sfortunata. Divengono, infatti, protagonisti anche la regina d’Egitto Cleopatra e il figlio da lei avuto con Cesare, Tolemeo XV Cesare, meglio noto come Cesarione. Questi, nato nel 47 a.C., venne associato al regno a soli tre anni per volontà della madre, che evidentemente nutriva per il piccolo grandi progetti. Perciò il figlio adottivo di Cesare, Ottaviano, una volta conquistato l’Egitto, fece uccidere nel 30 a.C. quel giovane che, a quanto si tramanda, così tanto ricordava l’illustre padre.
Abbiamo chiesto al Moreno di illustrare per noi le sue osservazioni in merito al ritratto francese e al rapporto tra esso e l’immagine di Cesarione, che il Moreno stesso ha contribuito a restituire.
In alcuni scritti pubblicati di recente, soprattutto nel capitolo di Cleopatra Capitolina intitolato “Il DNA di Cesare”, lei ha sostenuto la validità della tesi del Long ed anzi ha apportato un’ulteriore, fondamentale argomentazione a sostegno dell’identificazione proposta dall’archeologo francese. In cosa consiste tale sviluppo?
«La notizia della scoperta di un ritratto di Cesare ad Arles era in generale di grande interesse, e in modo singolare riusciva pertinente a un’altra identificazione da me proposta. Nel 2003 avevo riconosciuto il figlio di Cesare e di Cleopatra in un bronzo, scoperto mezzo secolo prima sulla costa meridionale di Creta, forse proveniente da Alessandria con una nave arenata. Il nesso tra le due opere, il busto di Arles e la statua di Creta, è fisionomico e insieme stilistico: la conquista di un territorio omogeneo, dal quale viene lo spunto per altre acquisizioni. Le sono grato per la sua espressione, quando parla di un argomento “fondamentale”: è uno di quei casi in cui l’importanza del dato ottiene un incremento geometrico, quanto imprevisto, dalla coincidenza con un testimone affine che la storia aveva disperso. Un vincolo familiare ritrovato, con quel gusto che anima l’archeologo anche se non scava: intuire la concordanza fra cose lontane ha il valore di un oggetto reperito nell’esplorazione. Si era perduto nel corso dei secoli il “DNA di Cesare”, la prova della sua discendenza riconosciuta e apprezzata dai contemporanei. Tra gli storici romani, Svetonio (circa 70-130 d.C.), riportava le parole di chi aveva conosciuto ad Alessandria il genitore prima di vederne crescere il figlio Cesarione: “non pochi dei Greci hanno tramandato che era molto simile a Cesare nell’aspetto e nel portamento” (Cesare, 52).
Prima di conoscere il Cesare di Arles, che diventa a sua volta la conferma del Cesarione, avevo fondato l’identificazione del bronzo sulla somiglianza con il cosiddetto “Cesare verde” ai Musei di Berlino. Questo ritratto è di una qualità assoluta, scolpito e levigato nello scisto di Uadi Hammamat, faticoso da lavorare: opera di tale pregio, da implicare una committenza da parte del protagonista stesso o di Cleopatra (48-44 a. C.). Un artista egizio, esperto di quel costoso materiale, ha rappresentato il romano al momento in cui c’era un rapporto personale tra il discendente di Enea e la donna che ereditava il prestigio di Alessandro. Un Cesare patinato di cultura esotica, somigliante ai sacerdoti di Iside nell’età finale dei Tolemei: la naturale calvizie esaltata dall’allusione rituale. L’identità fisionomica col figlio si poteva in tal modo verificare nella versione egizia del Cesarione in basalto, al Museo del Cairo.
Mobilitando accanto al busto di Berlino anche il crudo volto del Cesare da Tuscolo al Museo di Antichità di Torino, elementi comuni al padre e al figlio erano la struttura del cranio, l’arco delle guance rilevato intorno alla larga bocca serrata, gli zigomi alti, le narici larghe; le grandi orecchie discoste, la stretta apertura delle palpebre negli occhi ravvicinati; la radice del naso incassata; soprattutto il sistema di rughe sulla fronte, inspiegabili nella freschezza dell’età se non come impronta ereditaria volutamente approfondita dal plasticatore nel rappresentare il ragazzo di quindici-sedici anni, con due solchi verticali sopra l’attacco del naso e un lunga ruga orizzontale. Ironico infine il chiacchierato riporto sulla calvizie del genitore che diventa la frangia a larghe ciocche dello studente.
La statua di Creta fu il rinvenimento casuale di operai che nel 1958 cavavano sabbia lungo la spiaggia di Ierápetra, sulla sponda meridionale dell’isola, che fronteggia l’Egitto. In epoca tardo antica, Creta subì sismi di potenza inaudita, tanto che si è inclinata di qualche metro, salendo dalla parte occidentale e scendendo verso oriente. La località da cui proviene la statua è nel settore sprofondato: gli scopritori trovarono il bronzo tre metri e mezzo sotto il livello della costa attuale, assicurando di averlo visto in piedi. Non si esclude che la catastrofe abbia sigillato un contesto funerario, poiché non lontano c’era un sarcofago, ma anche questo poteva appartenere a un carico navale. Il bronzo, assegnato al Museo Archeologico di Iráklion, è stato pubblicato nel 1975 da Eliáne Raftopoúlou, che lo ha datato intorno al 50 a.C., studiando la capigliatura, il panneggio e il modello dei sandali anteriore all’età di Augusto. L’archeologa greca ha confrontato opportunamente il pezzo per il pesante ammanto con una statua in marmo, acefala, proveniente da Roma, conservata al Museo delle Belle Arti di Budapest: esaminandola in fotografia, ha ritenuto che quest’ultima fosse la raffigurazione di un uomo adulto, al quale si sarebbe ispirato l’autore del bronzo di Creta, riducendolo alla taglia di un ragazzo. Per parte mia, ho verificato a Budapest che la scultura ha invece la medesima statura del bronzo, e ne ho identificata un’altra replica equivalente e priva del capo al Museo Nazionale Romano, da via Panisperna, alle pendici del Quirinale.
Abbiamo dunque col medesimo panneggio l’originale in bronzo riconoscibile dal volto come Cesarione, e dotato realisticamente di sandali, mentre le due copie della prima età imperiale, trovate in Roma, rappresentano il ragazzo scalzo. Queste sono memorie di chi coltivava l’ideologia cesariana nell’età di Augusto, figure idealizzate del personaggio a noi noto dal bronzo: qualcuno a Roma (dove, va ricordato, erano esposti i gioielli di Cleopatra nella Curia del Senato, nel tempio di Giove Capitolino e nel memoriale del Divo Giulio) coltivava il ricordo di Cesarione con immagini di rango eroico. Lo stesso Augusto, nella rappresentazione postuma da Prima Porta (ai Musei Vaticani), promossa dalla vedova Livia, è solennemente presentato quale imperator, con corazza e paludamento, bensì scalzo, a significare l’avvenuta apoteosi.
Per quello che riguarda la formazione dell’immagine di Cesarione con quel particolare panneggio, l’ambientamento è suggerito dal fatto che ad Alessandria si trovano terrecotte con ragazzi vestiti alla macedone, con la mantella militare che avvolge tutta la persona nascondendo le braccia. Il costume è comune alla corte come al gusto popolare: l’eccezionale complessità elaborata nel bronzo, e fedelmente ripetuta nelle copie, rivela l’alto livello della ricerca figurativa, come aveva suggerito l’archeologa greca. Il riferimento è al fregio mitologico di Mantinea (circa 340 a. C., al Museo Nazionale di Atene), autografo di Prassitele, inventore di questo intreccio di gesti nascosti dal tessuto per una Menemosine, madre delle Muse. Il ritratto del nobile studente è nato alla corte dei Tolemei, per onorare una promessa degli studi e del potere, nella più alta tradizione ellenica».
Dunque, tornando al Cesare di Arles, possiamo dire che, in questo caso, il padre è identificato (anche) grazie al figlio..
«Il paradosso della domanda è autentico, così è andata quest’avventura archeologica. Avevo dato nome al Cesarione di Ierápetra prima della scoperta di Arles, perché nella gamma dei ritratti noti di Cesare il paragone era già cogente. La fisionomia è confermata al di là di ogni speranza dal busto di Arelate, che a sua volta si specchia nel volto di Ierápetra: il figlio dà ragione all’annuncio di Luc Long nella mostra.
Se la fonte storica sull’affinità tra padre e figlio ci ha portato alla ricognizione del rapporto familiare, i tratti più forti che sorprendevano nella fresca età del soggetto al Museo di Iráklion, sono proprio quelli che incidono l’amaro sembiante di Arles. Dal gioco delle somiglianze, passiamo alla profondità psicologica che l’erede condivide anzi tempo, doloroso presagio, col tormentato protagonista delle guerre civili. Tocchiamo infine con emozione l’unità del messaggio artistico, quel pendolo che batte all’unisono dall’una all’altra sponda del Mediterraneo. C’è l’universalità dell’ultimo ellenismo tra opere di così diversa tecnica e apparentemente indipendenti nella realizzazione: il busto di scisto nella formula egizia (48-44 a. C.), la “maschera di cera” da Tuscolo (47-44), il marmo scolpito in un centro celtico (46), il bronzo alessandrino (circa 32). Siamo al termine di un poliverso processo figurativo, da cui nasce la teoria eclettica: la pietra verde conosce finezze attiche; la durezza d’espressione alla fine della Roma repubblicana vale il verismo degli ultimi Tolemei; i “barbari” di Arelate vivono nella sfera culturale della greca Massalía (Marsiglia); il plasticatore alla corte di Cleopatra si nutre di maniera classica.
Dalla reciprocità dei ritratti monumentali, la base del discorso si amplia ai confronti con altre icone: per Cesare con le monete, per Cesarione con numerosi sigilli che garantiscono la sua immagine ufficiale. Si tratta di impronte su globetti di argilla che chiudevano i legacci di lettere (papiri o tavolette), spedite dalla corte di Alessandria a Pafo, nell’isola di Cipro. I primi esemplari di Cesarione su queste effimere cretulae (cotte, e così eternate, dall’incendio di un archivio), hanno sul diadema regale un astro, il sidus Iulium, simbolo dell’ascensione al cielo del padre: la cometa apparsa nel giugno del 44 a. C. durante i ludi in memoria di Cesare. Di lì a poco, una stella avrebbe caratterizzato la nascita del Cristo. Ad Alessandria era stata tradotta in greco la Bibbia dai Settanta. Cleopatra parlava l’ebraico e sapeva della profezia di Balaam e di Isaia: si attendeva un bambino con la stella. In un progetto di monarchia universale, voleva che anche la comunità giudaica riconoscesse Cesarione come il “Re dei Re”, dichiarato da Cleopatra e Marco Antonio. Sulle monete coniate a Cipro, la regina era apparsa col figlio neonato quale Iside con Orus, secondo il modello che sarebbe stato ripreso letteralmente in ambito copto, romano e bizantino per Maria col Bambino”.
Bibliografia essenziale:
P. Moreno, Archeologia filologica e nuovi risultati da Agelada a Stefano, in Meisterwerke, Internationales Symposion anlässlich des 150. Geburtstages von Adolf Furtwängler, Freiburg im Breisgau, 30. Juni – 3. Juli 2003 [Capolavori, Simposio Internazionale in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita di Adolf Furtwängler, Friburgo in Bresgovia, 30 giugno – 3 luglio 2003], a cura di Volker Michael Strocka, Monaco di Baviera 2005, p. 203-221; Cesarione di Iráklion, p. 204, fig. 26-30
– Il ragazzo di via Panisperna [copia al Museo Nazionale Romano del Cesarione in bronzo da Ierápetra], in Il Giornale dell’Arte, 23, n. 250, gennaio 2006, p. 44, fig.1-2
• – Tutto suo figlio! Il ritratto di Giulio Cesare rinvenuto in Francia, intervista di Stefano Mammini a Paolo Moreno, in Archeo, 24, n. 6 (280), giugno 2008, p. 10-11, fig. 1-5
• – Il Dna di Cesarione [conferma dell’identificazione di Giulio Cesare nel busto di Arles], in Il Giornale dell’Arte, 26, n. 277, giugno 2008, p, 6, fig. 1-2
• – Tale il padre, tale il figlio [il Cesare trovato nel Rodano a confronto col Cesarione da Ierápetra], in Ars et furor, 4, n. 15, giugno-luglio 2008 [www.arsetfuror.com]
– Cleopatra Capitolina, Messina 2009, Editinera, p. 35-39, 52-55, 59-63, fig. 41, 44, 47-57
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