La merce finale. Come l’acqua diventò oro blu
Di Riccardo Petrella*
L’hanno chiamata “The Ultimate Commodity”, la merce finale. Parlano dell’acqua. La considerano la sponda finale del processo di mercificazione della vita e del Pianeta Terra.
Una merce che genera profitti elevati. Secondo il “libro bianco” H20opportuity – redatto dal “The Calvert Global Water Fund”, un fondo d’investimenti internazionale Usa attivo nel settore degli investimenti speculativi – “dal 2004, su base cumulativa, i rendimenti degli investimenti mondiali nell’acqua sono stati più elevati degli indici medi di rendimento Usa e mondiali”. L’interesse della finanza privata per l’acqua è ritornato ad essere un fatto maggiore delle nostre società a seguito dei processi di liberalizzazione, di deregolamentazione e di privatizzazione dell’insieme delle attività economiche dei paesi occidentali nel contesto dello smantellamento del sistema del welfare e della globalizzazione economica capitalista di mercato. Una volta che il capitale privato ha ottenuto la piena libertà di azione e che il mercato si è visto attribuire dai poteri pubblici il ruolo di regolatore principale delle scelte in materia di allocazione delle risorse disponibili, il passaggio verso la concezione dell’acqua come l’oro blu è stato piuttosto rapido.
Nel corso degli anni ‘80 e ’90 l’acqua è stata trasformata in un “bene economico” perché – si è affermato in maniera mistificatrice – essa sarebbe destinata a diventare inevitabilmente sempre più rara e “preziosa”. Di conseguenza, i servizi idrici, come del resto tutti i servizi pubblici di interesse generale e vitale, sono stati ridotti a servizi di rilevanza economica ( dove l’aggettivo “economico” è stato utilizzato, ed imposto, unicamente nei sensi dell’economia capitalista di mercato. Un vero furto ideologico).
La finanziarizzazione dell’acqua è avvenuta direttamente, tramite investimenti nell’acquisto della proprietà del capitale delle imprese idriche “aperte al mercato”. L’esempio della Thames Water – la più grande impresa idrica del Regno Unito (n°3 mondiale, dopo le francesi Veolia e Suez) – acquistata dal gigante energetico tedesco Rwe da parte della banca australiana Mac-Quarie, è un caso da manuale.
La Rwe aveva “comprato” Thames Water nel 2000 per 7,1 miliardi di euro nel perseguimento della sua strategia mirante a diventare il n° 1 europeo della multiutilities. Appena quattro anni dopo, i dirigenti della Rwe cambiano di strategia e vendono Thames Water. Per acquisirla, la Mcquarie non si è mai occupata di acqua in passato. E’ una banca specializzata in servizi finanziari ( in Italia opera nel campo dei mutui per la casa) ed in investimenti nelle infrastrutture (gli aeroporti di Bruxelles e di Copenhaguen sono dei Mcquarie Airports). Perché ha investito così tanto nel settore dell’acqua? Non certo perché aveva un piano industriale e socio-ambientale di ammodernamento della rete e del servizio idrico nell’interesse di 13 milioni di abitanti della regione londinese e degli altri 50 milioni di persone servite nel mondo dalla Thames Water.
Per la Macquarie si è trattato di un strategia puramente finanziaria: aumentare i livelli di profitto del Gruppo intervenendo in un settore molto redditizio. E che dire della quasi totale appropriazione e mercificazione del mondo delle acque minerali e di sorgente da parte del capitale privato (potenti holdings finanziarie a capo di grandi imprese industriali e commerciali mondiali come Nestlè, Danone, Coca cola…..)? Si pensi alla San Pellegrino, diventata un marchio di bandiera della multinazionale svizzera Nestlè. In realtà, la svendita delle acque minerali al capitale privato mondiale costituisce una dimostrazione clamorosa dell’abdicazione dei poteri pubblici nei confronti delle loro responsabilità sui beni comuni naturali.
La finanziarizzazione dell’acqua è avvenuta anche, e sempre di più, indirettamente, tramite l’uso di strumenti e di metodi di gestione ispirati da logiche puramente finanziarie. Mi riferisco, anzitutto, ai fondi d’investimento internazionali specializzati nel finanziamento delle imprese operanti nel settore idrico. Da quando nel 2000, la banca privata svizzera Pictet lanciò, con risultati notevoli sul piano del rendimento nel corso dei dieci anni di esistenza, il primo fondo d’investimento internazionale dedicato all’acqua con sede in Lussemburgo, non si contano più i fondi “fratelli”, “figli” e “nipoti”. Fra i principali, oltre il Pictet Water Fund che copre più di 50 imprese quotate in borsa, figurano il duplice Global Water Equities Portfolio l’uno per le imprese attive nel settore del trattamento delle acque con più di 40 e 30 imprese rispettivamente, l’Asian Milieu&Water Fund (una trentina i imprese), il Kbc Eco Water Fund (circa 20 imprese), il PowerShares Global Water Portfolio, il First Trust Ise Water Index Fund, il Spdr Ftse Macquerie Global Infrastructure, il Calvert Global Water Fund, l’Allianz Rcm global Water Fund, il Pfw Water Fund, il KinetiscWater Infrastructure Advantaged Fund.
In concomitanza con tale esplosione, si sono moltiplicati anche gli indici borsistici destinati a fornire agli operatori finanziari ed industriali una valutazione permanente ed istantanea dell’evoluzione del valore dei titoli “acqua” sui mercati finanziari mondiali. I più autorevoli sono il Bloomberg World Water Index, il Msci Water Index, il Dow Jones Index, lo S&p Global Water Index, lo Ise Water Index ed il Palisades Water Index. Il che ha condotto in seno ai gruppi sociali dominanti all’emergenza di una nuova cultura dell’acqua che ha fatto dell’appetibilità finanziaria il criterio di valutazione discriminante per le scelte pubbliche e private nel settore dell’acqua. Un appetibilità articolata su tre pietanze principali da cui, secondo i dominanti, dipenderà il presente ed il futuro dell’”industria idrica” dei vari paesi: l’affidabilità economico-finanziaria delle imprese; la garanzia del corretto funzionamento del mercato e della concorrenza, ivi compresa la garanzia della proprietà del capitale; la redditività. L’appetibilità deciderebbe della capacità del servizio idrico di una città, di una regione, di un paese di attrarre gli investimenti. Da qui, la necessità, si afferma, di articolare una tariffa economicamente corretta capace di essere appetibile per il capitale privato. Niente appetibilità niente capitali!
La solo, grande preoccupazione dei dominanti è rappresenta dal rischio che “la politica”, il mondo dei cittadini, metta un giorno degli ostacoli all’avvenuta trasformazione dell’acqua in un “bene” fonte di grandi profitti per il capitale privato rifiutando di accettare gli aumenti del prezzo dell’acqua necesari per fare ( e mantener) dell’acqua un settore economicamente ad elevato tasso di ritorno sugli investimenti. Ecco perché, in Italia, i dominanti hanno paura degli “acquaioli” e dei referendum. Due sono le cose maggiormente temute dalle classi al potere: il fatto che i cittadini pensino in maniera libera e diversa da loro; il fatto che abbiamo dei sogni e che, pertanto, siano disposti a battersi per realizzarli. Ebbene, i referendum rappresentano una probabilità elevata che il rischio che preoccupa maggiormente il mondo del business e della finanza deiventi realtà.
*Autore di “Il bene comune” (1966), “Il manifesto dell’acqua” (1997), “Il capitalismo blu“ (2011)
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