Difficile spiegare ai lettori di questo blog che non vivano a Perugia, chi davvero fosse Paolo Vinti. Figlio di comunisti, suo padre è scomparso solo poche settimane fa, entrò giovanissimo nelle file di Avanguardia Operaia. Era uno dei militanti più attivi, assieme ad Assuero Bucherelli, del Comitato Unitario di Base in quella che era considerata la roccaforte di quel gruppo: l’Istituto per Geometri. Lo conobbi allora, a metà degli anni ’70, io che frequentavo l’Istituto d’Arte, base a sua volta dei trotskysti, dei cui ranghi facevo parte. In quegli anni in cui la politica era tutto, in cui la rivoluzione era la vita, non solo come lontana speranza, ma come pratica quotidiana, i rapporti personali risentivano delle rigidità, a volte settarie, dovute alla diversa appartenenza. Amici, davvero lo diventammo più tardi, quando l’esperienza rivoluzionaria venne sconfitta e calò sul paese la melma del riflusso. E lo diventammo appunto perché ci univa il rifiuto, etico prima ancora che politico, del “riflusso”, ovvero della ritirata nel “vissuto privato”, che travolse tutti o quasi i nostri compagni d’arme dei settanta.

Paolo tornò profondamente cambiato da un suo viaggio a Berlino, ai tempi in cui era  corrispondente del Quotidiano dei Lavoratori. Se non sbaglio era il 1979. Cosa accadde a Paolo in quel di Berlino? Se ne dissero tante, per spiegare quella sua palingenesi. Sta di fatto che da allora vestì i panni, per alcuni pittoreschi, dell’intellettuale scanzonato ma arguto, del profeta visionario.. Lo stilita del centro storico di Perugia il quale, pur senza salire sopra a nessuna stele, parlava ai compagni e ai passanti, discorrendo di rivoluzione e comunismo. Come se il tempo per lui si fosse fermato, come a manifestare un radicale rifiuto del presente. Per questo in molti lo consideravano, e lo trattavano benevolmente, come il “pazzo del villaggio”.

La partecipatissima cerimonia funebre di oggi, la calca dentro e fuori la Chiesa sconsacrata di San Bevignate, nota ai più come Chiesa dei Templari —ma perché celebrare lì i suoi funerali? Perché non piuttosto in una fabbrica, o in un capannone dismesso? O nella sua amata Piazza IV Novembre?— dimostra che Paolo era entrato nel cuore di tutti. E perché c’è entrato? L’ha detto, non so fino a che punto consapevolmente, il sindaco di Perugia nella sua orazione: «Paolo è stato ciò che noi dovremmo essere, e che non riusciamo ad essere». Appunto!

Nella tensione tra essere e dover essere, Paolo non ha abdicato al presente, scegliendo la dimensione estrema del dover essere, della coerenza ad un ideale, della speranza. Una scelta che solo la miserabile implosione del movimento comunista, il suo meschino inabissamento nella realtà, ha potuto scambiare per “follia”o per stravaganza.

Per i perbenisti Paolo appariva un "barbone". Lui che presidiava come una sentinella il centro della città, era come un pugno nello stomaco non solo per i borghesi, ma pure per gran parte dei suoi ex-compagni imboscatisi nelle istituzioni. La coscienza infelice della sinistra che fu? Un pazzoide? No. Paolo aveva scelto deliberatamente la via scandalosa della pauperitas. Il suo dignitoso "mendicare" tra i compagni era la maniera per dirci che ci amava, per ricordarci chi fossimo, ad evocare una comunità politica e umana che fu.

Come se pulsasse in Paolo la mistica quint’essenza dell’umbritudine. Ci piace pensare che Lui avesse scelto di essere la reincarnazione Francesco, un anacoreta urbano, una vox clamantis nel deserto della moderna solitudine. «Con emozione compagni!», Questa sua esclamazione, che ripeteva in ogni sede politica, ha un che di programmatico, e ci dice ora, alla luce della sua prematura scomparsa, quanto fosse dolorosa la sua solitudine, e quanto amore, e quanta bontà  portasse nel suo seno.

Profondamente radicato nella sua terra, Paolo teneva tuttavia il suo sguardo vigile sui fatti del mondo. Sempre informatissimo, su ogni paese, su ogni accadimento lontano. Mai è mancato, a nessuna manifestazione cittadina, tanto più a quelle nostre, di sostegno antimperialista a fianco delle Resistenze dei popoli oppressi. E sempre ha preso la parola, e sempre si è speso al nostro fianco, anche nei momenti più difficili, della persecuzione e della calunnia. 

Questo suo sguardo vigile sul mondo lo avvicina ad altri suoi conterranei, ai Capitini, ai Dino Frisullo. Mistero di questa terra che serba una segreta speranza di riscatto universalistico.

Queste cose avrei voluto dire questa mattina, davanti alla sua bara. Non l’ho fatto, per timore di guastare una cerimonia, in questo molto cattolica (o se volete il potente rito totemico del funerale, che tutti riavvicina innanzi all'implacabilità della morte), in cui la comunità spappolata beatifica i buoni al momento del loro trapasso, dopo averli snobbati e tenuti a distanza in vita. La comunità che poi si rituffa nel suo meschino tran tran, e che dimenticherà Paolo, come ha fatto con tutti quelli che l’hanno preceduto. Non l'ho fatto per rispetto di sua sorella e di suo fratello Stefano, che sono stati vicini a Paolo nei giorni del suo trapasso, e a cui ho dato la mia e nostra più sincera vicinanza rivoluzionaria. 

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