di Mario Pianta

La politica economica del governo Monti è tutta interna all’ideologia liberista che ci ha portato dentro la crisi: anziché procedere a una grande redistribuzione della ricchezza che possa rilanciare la domanda interna, l’esecutivo dei tecnici si barcamena fra austerità imposta dalla Germania e liberalizzazioni che non avranno alcun impatto sulla crescita. Ecco perché l’equilibrista liberista Monti perderà la sua scommessa

Il governo di Mario Monti funziona con un doppio esercizio di equilibrio. Il primo, sul fronte italiano, è quello con cui è stato costruito il suo governo «tecnico», con persone che «garantiscono» le diverse forze politiche, il Vaticano e i poteri forti. Il secondo esercizio, sul fronte europeo, deve «garantire» i mercati finanziari e i «poteri forti» dell’Europa – la Germania di Angela Merkel innanzitutto. L’obiettivo è evitare che l’Italia sia stritolata dalla crisi del debito, e che l’Unione monetaria e l’euro crollino insieme al nostro paese. La politica economica è lo strumento con cui questa garanzia viene esercitata, assicurando la finanza e il «centro» politico dell’Europa sull’ortodossia liberista della strategia italiana, ma cercando allo stesso tempo di allargare un po’ la via che l’economia italiana deve percorrere.

Esemplare in proposito è l’andamento degli spread, i differenziali dei tassi d’interesse tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, un indicatore della mancanza di fiducia dei mercati finanziari nell’economia e nella politica dell’Italia. Con i tassi d’interesse italiani al 7 per cento, il peso del servizio del debito pubblico italiano è insostenibile. Ma le garanzie date alla finanza impediscono misure «straordinarie» che riducano i circa 95 miliardi di euro che quest’anno l’Italia deve pagare per interessi passivi. Così, con un attento mix di retorica – il «rigore, crescita ed equità» del suo primo discorso in parlamento – dichiarazioni ottimistiche, rassicurazioni ai mercati, esortazioni a non esagerare con la speculazione, il governo Monti è riuscito a far scendere un poco gli spread: non abbastanza per far tornare i conti, abbastanza per mostrare che è in grado di rassicurare la finanza più di quanto fosse capace il governo Berlusconi, o potrebbe essere un governo di centrosinistra meno subalterno alla logica della speculazione. L’esercizio di equilibrismo è difficile, il risultato è soltanto un breve rinvio di una resa dei conti che è quasi impossibile eludere.

La linea sottile dei conti pubblici

Vediamo la politica fiscale. Non se parla quasi più, ma il «patto fiscale» sottoscritto a Bruxelles da 25 dei 27 paesi Ue (Londra e Praga esclusi) impone a tutti la «dottrina tedesca» dell’austerità: il pareggio di bilancio sarà scritto nelle Costituzioni di tutti gli Stati, sui deficit e sull’obbligo di riduzione del debito avrà poteri la Corte di giustizia europea: «I limiti al debito saranno vincolanti e validi per sempre», ha dichiarato il cancelliere Merkel, «non si riuscirà mai a cambiarli attraverso maggioranze parlamentari». In realtà, il candidato socialista alle elezioni presidenziali francesi François Hollande ha già annunciato la sua opposizione e, in caso di sua vittoria, la partita della politica economica potrebbe riaprirsi in modo radicale.

Ma, in attesa di una svolta possibile in Francia, a Roma rimaniamo con i vincoli «tecnici» alla nostra spesa pubblica. Quest’anno l’Italia sperava di avere un prodotto interno lordo intorno a 1.600 miliardi di euro; secondo il Fondo monetario internazionale la recessione lo farà cadere del 2,2 per cento, circa 35 miliardi in meno. Su una spesa pubblica vicina a 800 miliardi di euro, la recessione potrebbe significare 15 miliardi di minori entrate fiscali, e altrettante potrebbero essere le maggiori spese dovute al rialzo dei tassi d’interesse sui 1.900 miliardi di debito pubblico italiano. All’inizio della crisi l’Italia pagava per interessi sul debito pubblico circa 80 miliardi di euro l’anno, circa il 10 per cento della spesa pubblica totale, mentre fino al 2006 il peso era significativamente più basso. Con l’attuale rialzo dei tassi pagati per finanziare il debito che viene a scadenza, la spesa pubblica nel 2012 dovrà riservare alle rendite finanziarie 95 miliardi circa, riducendo ulteriormente i margini per spese legate a beni e servizi.

A questo si aggiunge l’onere dell’impegno accettato a Bruxelles di rimborsare un ventesimo del debito l’anno oltre la quota del 60 per cento del pil. Questo rappresenta per l’Italia circa 50 miliardi di euro di spesa ulteriore: in tutto nel 2012 sono oltre 80 miliardi i fondi sottratti al bilancio dello Stato rispetto al 2011 per effetto del peso della finanza e delle politiche di austerità: un decimo dell’intera spesa pubblica. Si può stimare che metà del rimborso del debito vada a creditori stranieri, sottraendo risorse al paese: la caduta del pil a questo punto sarebbe dell’ordine del 6 per cento, senza calcolare gli effetti indiretti del calo di redditi, spesa pubblica e consumi.

Blandire la finanza internazionale e seguire la linea tedesca dell’austerità non può far quadrare i conti pubblici. La questione del debito, in Italia come negli altri paesi europei, può essere affrontata soltanto con un cambio di direzione delle politiche europee – ridimensionamento della speculazione, garanzia collettiva del debito pubblico, interventi della Banca centrale europea – che assicurino un ritorno dei tassi d’interesse che l’Italia deve pagare ai livelli pre-crisi, vicini a quelli dei titoli tedeschi. È questo il test decisivo sul successo dell’azione del governo Monti.

C’è poi il problema dei conti con l’estero. L’Italia importa più di quanto esporta, il deficit commerciale si va allargando e viene finanziato da crescenti afflussi di capitali. Buona parte vanno a investire in titoli di Stato: circa metà del debito pubblico è finanziato dai risparmi interni e metà viene da banche estere, fondi pensione e d’investimento, operatori stranieri che si spostano da un mercato all’altro con l’obiettivo di massimizzare i rendimenti ed evitare i rischi di insolvenza: un ulteriore elemento di fragilità della situazione italiana. Ad alimentare gli squilibri è soprattutto il grande surplus commerciale della Germania, e gli spostamenti di capitali speculativi, ma di questo problema il governo Monti non parla, l’Europa non discute, la Germania non vuol sentire.

Sul filo delle manovre fiscali

Tra l’estate e l’autunno 2011 il governo Berlusconi è intervenuto con misure per ridurre il deficit di 50 miliardi; il governo Monti, in carica dal 16 novembre 2011, ha confermato gli interventi e ha aggiunto a dicembre una nuova manovra di 24 miliardi di euro. L’obiettivo è il pareggio di bilancio nel 2013, imposto dai vincoli europei. I tagli hanno colpito pensioni, salari dei dipendenti e servizi pubblici, mentre le entrate fiscali diminuivano per effetto della crisi, delle riduzioni delle imposte introdotte dal centrodestra e di un’evasione record favorita dall’alleggerimento dei controlli. Per assicurare il «rigore» di bilancio a fondamento della politica di Mario Monti, ci sarebbero strade diverse da percorrere. Una serie di proposte è nel rapporto Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente presentato a fine 2011 dalla campagna Sbilanciamoci!, che raccoglie 50 organizzazioni della società civile.

Un carico fiscale distribuito diversamente, una profonda riorganizzazione della spesa pubblica che torni alle sue responsabilità di sostenere il welfare, assicurare i servizi pubblici, indirizzare lo sviluppo, un ruolo dell’Europa per sostenere la domanda aggregata e la convergenza delle economie più fragili. Queste sono le condizioni minime per usare bene la spesa pubblica, far ripartire la domanda ed evitare una nuova grande depressione.

La recessione dimenticata

L’Italia è da diversi mesi in recessione, secondo il Fondo monetario il pil del 2012 dovrebbe diminuire del 2,2 per cento rispetto all’anno scorso, ci sono 800 mila posti di lavoro a rischio nelle imprese in crisi, gli investimenti sono scomparsi, le esportazioni non tirano, la spesa pubblica è in picchiata, la spesa per consumi cade. L’Italia non è sola: è l’intera Europa a veder cadere (più lievemente) il reddito, nonostante la tenuta della Germania. La recessione segna la vita quotidiana degli italiani, ma non compare nel dibattito politico e non si vede nella politica del governo Monti.

I tagli di bilancio e le politiche di austerità hanno l’effetto di far cadere la domanda e, senza domanda, la produzione non riprende. Eppure nelle dichiarazioni del governo la ripresa della domanda non compare mai; fedele all’ortodossia liberista, Mario Monti pensa che produzione e occupazione possano apparire come d’incanto non appena si liberalizzano i mercati e si riducono i costi e le tutele del lavoro. Così, grandi sforzi del governo sono andati nella direzione di liberalizzare farmacie e taxi e nel controverso «accordo» sul lavoro. Il risultato sulla crescita non c’è stato e non ci potrà essere.

Una grande redistribuzione

Oltre alle dimensioni – in calo – della «torta» del reddito, la politica economica deve considerarne anche la distribuzione. La «fetta» che va al lavoro dipendente risulta dalla quantità e dalla qualità dell’occupazione e dal livello dei salari. Le altre due quote sono quelle che vanno alle imprese come profitti e alla finanza come interessi e rendite, «fette» che in vent’anni hanno sottratto al lavoro circa 15 punti percentuali del reddito. C’è stata una «grande redistribuzione» a danno di chi lavora e, più in generale, a favore dei pochi italiani più ricchi. Oggi l’Italia è uno dei paesi con le maggiori disuguaglianze di reddito, e a documentarlo è il Rapporto dell’Ocse Divided we stand (Oecd, 2011).

La crescente disuguaglianza è il risultato di cambiamenti nei meccanismi di mercato e rapporti di potere, ma è anche il risultato dell’azione dello Stato attraverso il prelievo fiscale da un lato, i trasferimenti di risorse e la fornitura di servizi pubblici dall’altro. Nella maggior parte dei paesi europei l’azione pubblica ha un grande ruolo nel ridurre le disuguaglianze che emergono dal mercato e il dibattito sulla redistribuzione è già cominciato; in Francia il responsabile economico del Partito socialista e un dirigente sindacale hanno scritto un libro dal titolo Bisogna far pagare i ricchi (V. Drezet, L. Hoang Ngoc, Il faut faire payer les riches, Seuil, Paris 2010). Che cosa fa la politica in Italia per evitare una deriva che rende più ricchi pochi ricchi e più poveri tutti gli altri italiani?

Quello che Monti sta facendo è ridurre l’evasione fiscale, una questione di grande rilievo, che può migliorare i conti pubblici, ma non può assicurare da sola un riequilibrio nella distribuzione del reddito. Serve un cambiamento nella struttura dell’imposizione fiscale che in Italia pesa in modo del tutto anomalo sul lavoro dipendente. Le entrate fiscali dovrebbero venire molto di più dalla ricchezza, dal lavoro autonomo, e da tasse ambientali.

Al centro della politica fiscale dovrebbe esserci la tassazione della ricchezza, sia quella finanziaria – investita in azioni, titoli pubblici e privati, fondi e attività di private banking 3 – che quella immobiliare. Secondo l’Istat, la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane è la più alta d’Europa, ed è particolarmente concentrata. La proprietà immobiliare è più distribuita, con la diffusione della proprietà della casa di abitazione, ma anche qui esistono grandi patrimoni che sono stati gonfiati dal boom dei valori immobiliari degli ultimi dieci anni. La tassazione sugli immobili è stata drasticamente ridotta con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa da parte del governo Berlusconi, ripristinata ora in nuove forme dal governo Monti. La tassazione sulle rendite finanziarie, aumentata un poco dal governo Monti, resta tra le più basse in Europa. Nessun intervento è stato realizzato sulla ricchezza finanziaria. Eppure il consenso per una tassazione dei patrimoni sembra ormai molto ampio – comprende Confindustria, interventi sul Sole-24 Ore, Corriere della Sera – e appare essenziale sia per affrontare l’emergenza dei conti pubblici, sia per alleggerire il carico fiscale sul lavoro dipendente e iniziare a ridurre le disuguaglianze.

Far pagare i capitali illegalmente all’estero è un’altra misura che il governo Monti ha adottato con grande timidezza. Gli oneri del condono introdotto dal governo Berlusconi (il 5 per cento) sono stati irrisori e ugualmente irrisorio è l’onere aggiuntivo previsto dal governo Monti. Come ha proposto Sbilanciamoci! nel suo Rapporto 2012, un «contributo di solidarietà» del 15 per cento su questi capitali porterebbe 15 miliardi nelle casse dello Stato.

Reintrodurre l’imposta di successione è un’ovvia necessità. Solo l’ossessione di tutelare i privilegi ha fatto sì che nel decennio passato l’imposta che da sempre colpisce la trasmissione di ricchezza agli eredi sia stata attenuata dai governi Prodi e cancellata dai governi Berlusconi. Ora la chiedono gli stessi miliardari – negli Stati Uniti perfino con inserzioni a pagamento sui maggiori quotidiani – sulla base del principio che i loro figli devono essere capaci di arricchirsi, non spendere semplicemente le eredità ricevute. Anche da un punto di vista «liberale», l’imposta di successione rappresenta un meccanismo importante di redistribuzione che contribuisce a ridurre le disuguaglianze di opportunità. In un paese come l’Italia, con mobilità sociale assai più bassa degli altri, un ritorno dell’imposta di successione – con aliquote più elevate che in passato – sarebbe un elemento di equità che contribuirebbe a nuove fonti di entrate per lo Stato, da utilizzare anche per alleggerire l’imposizione fiscale sul lavoro dipendente.

Considerando i problemi che la politica economica ha sul fronte del debito e dei vincoli europei, senza misure di questo tipo dal lato delle entrate, è impossibile un uso della spesa pubblica per redistribuire redditi dal 10 per cento dei ricchi al 90 per cento dei cittadini, e per fornire servizi pubblici di livello degno di un paese avanzato.

Quello che Monti non può fare

Per uscire dall’impasse della crisi europea e della recessione italiana servirebbe una svolta a scala dell’Europa. Esistono molte proposte, emerse in particolare dal dibattito su «La rotta d’Europa», che appaiono largamente condivise, anche da settori dell’élite, ma che proprio la logica «equilibrista» del governo Monti rende impossibili da perseguire.
Una serie di misure possono controllare e limitare le attività della finanza globale. Le transazioni finanziarie vanno tassate; su questo esiste ora un consenso in Europa, con l’eccezione della Gran Bretagna di David Cameron, e la Commissione europea sta preparando una proposta di direttiva sulla Financial Transaction Tax (Ftt).

Gli squilibri prodotti dai movimenti di capitale possono essere ridotti, e perfino il Fondo monetario internazionale riconosce che interventi al riguardo sono necessari; Cina, India, Brasile e altri paesi emergenti mantengono misure di controllo dei capitali che li hanno protetti efficacemente dalle crisi finanziarie.
È possibile eliminare i paradisi fiscali, ma G20 e Ocse non hanno fatto passi avanti in materia e sarebbe necessario limitare drasticamente le possibilità di speculazione su attività ambientali – i diritti ad emettere emissioni di anidride carbonica – e su materie prime fondamentali, come i prodotti alimentari: negli ultimi anni i prezzi internazionali del cibo hanno avuto gravi oscillazioni dovute proprio alle operazioni della finanza.

Serve il ritorno alla divisione tra banche d’affari e commerciali, una supervisione da parte di agenzie europee che non si limiti a imporre aumenti di capitali alle banche – sulla base delle nuove regole di Basilea – ma pretenda una regolamentazione più stretta contro le attività più speculative e rischiose.
Le norme sugli investimenti finanziari non dovrebbero più prevedere alcun ruolo delle agenzie di rating, come proposto negli Stati Uniti; le agenzie si sono mostrate del tutto inaffidabili nelle loro valutazioni di rischio – a cominciare dal caso Lehman Brothers – e si potrebbe creare un’agenzia di rating pubblica che operi secondo criteri di valutazione più solidi e condivisi.

Il debito pubblico dei paesi che adottano l’euro dovrebbe essere garantito collettivamente dall’Eurozona, la Banca centrale europea dovrebbe operare come prestatore di ultima istanza e si potrebbero emettere eurobond che alleggeriscano il debito degli Stati. Se l’Europa non agisce in questa direzione, si profila un aggravamento della crisi e una ristrutturazione del debito dei paesi più esposti, sul modello dell’accordo raggiunto per la Grecia, con il taglio del debito nelle mani delle banche private.
Le decisioni su che cosa si produce, come e per chi, non devono essere lasciate al «mercato», cioè alle grandi imprese multinazionali, ma vanno indirizzate da politiche industriali e dell’innovazione – europee e nazionali – che puntino alla convergenza tra le capacità produttive dei paesi europei, a produzioni sostenibili, efficienti e con maggiori competenze dei lavoratori.

I diritti del lavoro e il welfare sono elementi costitutivi dell’Europa. Dopo decenni di politiche che hanno creato disoccupazione, precarietà e impoverimento, serve mettere al primo posto la creazione di un’occupazione stabile, di qualità, con salari più alti e la tutela dei redditi più bassi.
Un’Europa che voglia avere il consenso dei cittadini deve riprendere il controllo dell’economia e costruire le sue strategie comuni su queste basi, con politiche coordinate di domanda, di offerta e del lavoro che sostituiscano il Patto di stabilità e crescita e le revisioni dei trattati decise nel 2011.

Lo squilibrio liberista

Abbiamo avuto vent’anni di corsa al privilegio, all’individualismo, al mercato come unico orizzonte. Ora il governo Monti tenta di tenere in equilibrio un’economia strutturalmente fragile, schiacciata dalla finanza e dalle disuguaglianze. L’esercizio del governo Monti è finora riuscito ad allentare in parte i vincoli finanziari del paese, e a recuperare una credibilità internazionale precipitata in basso con il governo Berlusconi. Ma la politica di «equilibrismo liberista» è subalterna alla finanza, logorata dalla sequenza di manovre fiscali, stretta da un contesto internazionale poco favorevole. Soprattutto, ignora la recessione che colpisce il paese, la perdita di occupazione e la precarietà del lavoro, il peggioramento delle condizioni di vita di nove italiani su dieci. Dietro la retorica dell’«equità» si nasconde il mantenimento di una distribuzione del reddito tra le peggiori d’Europa.

È questa l’applicazione rigorosa – ben più che ai tempi di Berlusconi – dell’ideologia liberista che ha prodotto la crisi finanziaria mondiale del 2008 e la crisi europea del 2010. Nel mezzo di questi sconvolgimenti, i rimedi che il governo Monti propone ignorano le cause dei problemi e aggravano le conseguenze. Siamo a una replica del fallimento delle politiche liberiste introdotte negli anni Trenta per affrontare la Grande depressione. Come allora, il liberismo di Mario Monti è un progetto che non può funzionare.

Fonte: Il Manifesto

(Questo testo è una anticipazione del nuovo numero di Micrimega in edicola, libreria, su Ipad)

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