Ilio Liberati
Assessore Comune di Perugia


Qualche giorno fa il più importante quotidiano economico italiano ha pubblicato una grafica in cui, giorno per giorno, si aggiornava la manovra del governo alla luce di un ipotetico “borsino”. Le icone che rappresentavano i singoli provvedimenti entravano, uscivano, rientravano. Questa è la prima fotografia che fissa questa fase della vita politica italiana: la più totale confusione ed il balletto di ipotesi in libertà, iniziate nella residenza privata del premier ad Arcore, da cui esce molto chiaramente come il governo fosse, e sia indeciso a tutto. Oggi, si naviga a vista con idee “ad horas”, e la manovra cambia ancora.


L’ennesimo aggiustamento della manovra (si concluderà con l’annunciato voto di fiducia?), in tutta evidenza frutto della costrizione (opportuna!) conseguente alle parole del Presidente Napolitano, a quelle dei partners europei ed alle ruvide logiche dei mercati, rimanda ( fino all’ennesima prossima manovra correttiva…) il problema senza risolverlo; è la conferma di un’assenza di credibilità politica, alla cui radice vi è anche l’assenza di una visione ideale. Quella di chi, anche di fronte all’evidenza dei fatti, nega la realtà ( ricordate le affermazioni sulla natura meramente “psicologica” della crisi?) ed è incapace di ragionare tenendo conto del bene comune.


La seconda fotografia, anche più brutta della prima, è quella di un Paese che non riesce a ragionare da Nazione, accantonando interessi particolari, egoismi e furberie per darsi, tutti insieme, una mano e salvare l’Italia da una situazione che per gravità ha pochi precedenti, forse nessuno, dal dopoguerra in poi. La “logica” è in sostanza questa: “è vero, siamo in una crisi difficile, occorre fare sacrifici per ripianare i nostri conti pubblici, ma non contate su di me, paghino gli altri”. Gli altri sono poi sempre gli stessi, ovvero quelli di cui sono noti beni e redditi, ed ai quali dunque è facile accedere. I furbi, che poi tanto furbi non sono, insomma aspettano che l’Italia la salvino questi soliti, aspettandosi per l’ennesima volta che nessuno vada fino in fondo a controllare perché tra le prime ed i secondi ci sia una evidente sperequazione.
 

Stiamo perdendo una occasione. Un grande popolo, nei momenti di difficoltà estrema, tira fuori risorse estreme. La prima risorsa è l’unità, ferma restante la dialettica politica che è sacrosanta ed intoccabile in una democrazia compiuta. Abbiamo bisogno di un vero ed operoso senso di solidarietà che si concretizzi in adeguata giustizia sociale, perché “bene comune” non è una formula astratta, ma la quotidiana ricetta capace di vincere il male dell’egoismo. Verifichiamo ogni giorno – anche in chiave locale – l’incertezza di una società lacerata che reagisce con l’egoismo. E’ certamente uno dei frutti avvelenati raccolti da chi, dal governo, ha lavorato per dividere e spaccare l’Italia: il nord dal sud, il popolo delle partite IVA dai lavoratori dipendenti, i sindacati tra loro. E nello stesso tempo ha seminato la cultura dell’individualismo e del rampantismo a piene mani. E’ davvero credibile una seria lotta all’evasione da parte di chi, non molto tempo fa, spiegò che, certo, se le aliquote sono così alte, si può capire che uno evada? O davvero si può ancora credere a chi organizzò il no tax day per dare la spallata al governo Prodi, ed oggi governa l’Italia della più alta pressione fiscale mai raggiunta?
 

Ma questo vuole essere più un intervento costruttivo che una polemica sul passato. La politica deve prendere delle decisioni, soprattutto se dalla società emergono spinte centrifughe che non arrivano ad una composizione. Il punto è dunque da dove partire. Partiamo dalla Costituzione, dove c’è scritto chiaramente, art. 53, che i cittadini contribuiscono alle spese pubbliche sulla base della loro capacità contributiva. Lo si chiami come si vuole, senza aver paura delle parole, ma paghiamo tutti sulla base della reale ricchezza complessiva, a qualunque titolo ed in qualunque modo questa sia stata prodotta. E’ evidente che tutto questo significa, in via preliminare, che lo Stato riesca, e voglia, accertare le ricchezze reali, perché altrimenti qualunque manovra non può che basarsi su cifre dichiarate, ufficiali, ma il più delle volte non veritiere. Ma è davvero così difficile trovare un sistema? In assenza di fantasia si può fare un corso nei paesi dove le tasse riescono a farle pagare, che poi, guarda caso, sono i Paesi ricchi e civili. Come potrebbe essere l’Italia se ogni anno non rispuntasse fuori quel dato orrendo, offensivo, barbaro di circa 120 miliardi di evasione, e non venisse pubblicata quella oscena lista delle categorie dei contribuenti con a fianco la media delle loro dichiarazioni! E l’insegnante di scuola media, il quadro del settore pubblico o privato, il lavoratore delle acciaierie scopre con orgoglio di essere più ricco dei tanti che, accanto a lui, svolgono attività e professioni e, in modo manifesto ed inequivoco, nelle relazioni sociali evidenziano un benessere e un tenore di vita sproporzionato alla entità dei redditi che denunciano. A tal proposito, potrebbero essere utilmente consultati studi statistici pubblicati in questi giorni che evidenziano quali siano le categorie di lavoratori, per lo più autonomi, agli ultimi posti, come media, delle dichiarazioni irpef. E’ così difficile ricorrere a normative come quelle anglosassoni sul “contrasto di interessi”, così da far emergere una mole di sommerso ( e dei suoi derivati…) che tutti vediamo abitualmente?
 

Bisogna mettere in campo e prevedere, per esempio, un sistema di detrazioni e deduzioni a favore dei cittadini che usufruiscono di servizi e prestazioni di lavoratori autonomi, ovvero professionisti. Questa manovra sembra essere fatta da ragionieri, asetticamente burocrati!!!
Sulla riforma delle pensioni di anzianità – senza pensare a soluzioni ridicole ed incostituzionali, che sono cadute nello spazio di qualche ora e fatte salve le tutele delle madri lavoratrici e di chi svolge lavori usuranti – bisogna individuare percorsi condivisi per provvedimenti strutturali e coinvolgere gli italiani in una responsabilità solidale, per la tutela del futuro delle generazioni che ci succedono.

Un altro tema connesso è quello comunemente definito “costi della politica”. Bisogna chiarire che una cosa sono i “costi dei politici”, altra cosa è il “costo della democrazia”. Nel primo caso, mano alle forbici su privilegi e sprechi, a partire da Roma (dove, fino ad oggi, non è successo praticamente nulla, o quasi) fino alle articolazioni periferiche.
 

C’è solo da procedere: come già sostenuto autorevolmente, in 90 giorni si può approvare la legge costituzionale che dimezzi il numero dei parlamentari, ne riduca le indennità e ne abroghi i vitalizi.
La seconda questione è molto più delicata. Bisogna ridurre l’impalcatura istituzionale dello Stato ad ogni livello cercando di diminuire costi, aumentare l’efficienza e conservare le sedi della partecipazione e della rappresentanza. E’ un lavoro serio, anche perché non deve neanche sfiorare una rotta di collisione con gli articoli della Costituzione in materia, e non può essere fatto dalla sera alla mattina (Province sì, Province no, solo alcune, no, tutte…). Bisogna farlo con ragionevolezza e coerenza.
Quella stessa ragionevolezza e coerenza che tutta la classe dirigente del paese, in qualsiasi campo di impegno sociale, politico e culturale coinvolta, deve mettere in campo nel superiore e solidale interesse della collettività nazionale.
 

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