Finanzcapitalismo, una guida per liberarsene
L'ultima opera di Luciano Gallino
Megamacchine sociali, servo-unità umane, finanzcapitalismo. La neolingua che Luciano Gallino inventa nella sua ultima opera Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (Einaudi, pp. 336, euro 19,00) non ha la funzione di stimolare la parte sinistra del cervello quanto quella di capire la "realtà" che ci sta di fronte. Una realtà in fase di forte transizione. Obbligo di virgolette, quindi, e come tutte le transizioni ha bisogno di strumenti analitici parziali, che alludano più che a un passato ormai incomprensibile a un "mondo nuovo" di difficile comprensione. Anche se il capitalismo ha ben poco di autenticamente nuovo, e il passato non è popolato poi solo di cadaveri, i nodi che l'umanità, oggi così irrimediabilmente frontiera di se stessa, si trova a dover sciogliere sovrastano anche ogni serio tentativo di riflessione critica.
E così occorre almeno affidarsi a una "neolingua". Luciano Gallino, che di frontiere tra discipline se ne intende, mette al lavoro tutta la sua creatività per cercare di intravedere nuovi territori. Nuovi territori in un "oltre" difficile da concepire. Anche perché la prima sfida che Gallino sembra impostare è quella di riuscire a "dislocarsi" dalla totalità del presente. «Come macchina sociale, il finanzcapitalismo - sintetizza molto bene il risvolto di copertina - ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sottosistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona. Così da abbracciare ogni momento e aspetto dell'esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all'estinzione».
La valorizzazione del denaro, come aveva già messo in evidenza Jean Braudrillard in Lo scambio simbolico e la morte è fine a se stesso e non ha più alcun riferimento alla reatà. E di fronte a questo paradosso, noi umani, che ci riteniamo così reali dove finiamo? L'obiettivo di Gallino non è quello di provare a abbozzare delle ricette ma quello di mettere alla prova alcuni strumenti analitici. Per questo il libro va letto e studiato. Perché ci aiuti a superare la paura di ricominciare un percorso di critica e di cambiamento.
Fonte: Liberazione del 15 maggio 2011
Lunedì
16/05/11
14:22
Propongo una interessante intervista rilasciata da Gallino a Rovelli, per dare un'idea del tema affrontato nell'ultima fatica di Gallino.
Certo, la proposta finale del controllo dei sindacati sui fondi pensione - dopo una tale premessa in punto di analisi - mi riporta alla mente la nota immagine della "coda" che "dimena il cane"...
mercoledì 4 maggio 2011FINANZCAPITALISMO
«Siamo su un aereo senza pilota in cabina di pilotaggio»
Marco Rvelli intervista Luciano Gallino*
D. Sappiamo che l’alternanza tra fasi espansive e produttive e fasi speculative sono sempre state una costante nella storia del capitalismo (ce lo ha spiegato ad esempio Giovanni Arrighi). Ma lei ci fa capire che oggi siamo in presenza di una sorta di salto quantico: ci dice con molta chiarezza che siamo in una fase del tutto nuova, non più nel classico capitalismo industriale, ma nel finanzcapitalismo. E ci dice che questo salto quantico è un salto con esiti potenzialmente tragici.
R. Vi è stato in questi ultimi trent’anni un enorme sviluppo del sistema finanziario a paragone dello sviluppo del sistema dell’“economia reale”: se all’inizio degli anni ottanta il volume degli attivi finanziari corrispondeva al Pil mondiale, al momento della crisi ammontava a oltre quattro volte il Pil. Il mondo è stato radicalmente trasformato da un processo patologico.
E’ enormemente e patologicamente cresciuta, in particolare nell’ultimo decennio, l’attività bancaria, che si continua a chiamare così anche se si tratta di attività finanziarie estremamente diversificate, non trattandosi più delle banche classiche depositi e prestiti, ma di conglomerati giganteschi che operano in ogni possibile settore. E” enormemente e patologicamente cresciuta la finanza ombra, un sistema senza nome né indirizzo né identità, formata da una grande quantità di società di scopo (i cosiddetti “veicoli”), e da centinaia di trilioni di dollari di derivati scambiati tra privati (otc) che sono stati un elemento decisivo di destabilizzazione. In questo processo i bilanci delle banche sono diventati incomprensibili e ingestibili, perché molte attività sono state trasmesse ai “veicoli”, in particolare i titoli derivanti dalla cartolarizzazione, ovvero la trasformazione in crediti di debiti derivanti da prestiti alle famiglie o alle imprese (la crisi è iniziata da lì, negli Stati Uniti, dai derivati composti da mutui che le famiglie non erano più in grado di pagare).
E’ enormemente e patologicamente cresciuto il ruolo degli investitori istituzionali (compagnie di assicurazione, fondi pensione e fondi comuni di investimento): essi sono i “nuovi proprietari universali”, possedendo oltre la metà del capitale delle imprese di ogni genere.
E’ infine enormemente e patologicamente cresciuto il peso che le istituzioni finanziarie hanno assunto nel governo delle imprese. Dal 1980 in avanti si è affermato il criterio che un’impresa funziona unicamente per massimizzare il valore delle azioni, e questo ha modificato il criterio di governo e di gestione quotidiana delle imprese, con conseguenze ben visibili, drammaticamente, ogni giorno.
A causa di questo sviluppo abnorme, l’insieme del sistema finanziario non è controllabile da alcuna autorità, non solo per le sue dimensioni, ma anche per la sua composizione: chi parla di costruire “trasparenza del mercato finanziario” davvero non ha compreso i fondamenti della questione. Questo mercato finanziario non può essere trasparente. Siamo su un aereo senza pilota in cabina di pilotaggio. Bisogna riformare il sistema dalle fondamenta, mentre invece dopo la crisi non è stata intrapresa alcuna riforma.
D. Guardando la copertina del suo libro, dove vi è un grattacielo visto dal basso che ricorda la torre di Babele, viene naturale pensare che siamo di fronte a una sorta di hybris degli umani, alla smisuratezza di un processo totalmente sfuggito di mano, che ha preso vita propria, fuori da qualsiasi controllo.
Sì, è così. E lo vediamo ogni giorno come l’intera economia sia totalmente a rimorchio del sistema finanziario. Lo vediamo anche da un punto di vista simbolico, ché il linguaggio della finanza ha permeato ogni ambito della civiltà, del discorso quotidiano. Ma se questo sistema tende all’assolutezza, ed è radicalmente incontrollabile, ciò equivale a uno svuotamento di fatto del concetto stesso di democrazia.
D. Peraltro questo processo, lei lo mette in chiaro molto bene nel libro, è stato determinato dalle scelte della politica, contrariamente alla vulgata proposta e introiettata dalla politica stessa che si è dipinta come passiva e impotente di fronte ad esso.
R. Non è stato per nulla un processo naturale. E’ stato invece un grande progetto ideologico, culturale e politico avviato dagli anni cinquanta e che ha preso piede a partire dagli anni ottanta. Non è vero che la politica è stata sopraffatta dalla finanza: l’assoluta libertà di agire che ha acquisito la finanza è stata un’operazione politica, iniziata peraltro in Europa. Si parla, a questo di proposito, di un “consenso di Parigi” che ha preceduto il “consenso di Washington”. La crisi ha dimostrato l’assoluta falsità della tesi ideologica dell’autoregolazione del mercato, eppure essa continua a presentarsi come l’unica possibile. E questo lo verifichiamo anche nella continuità delle persone: il consiglio economico di Obama, ad esempio, è composto da banchieri che hanno avuto parte importante nella deregulation fatta sotto Reagan e Bush.
D. Europa degli anni ottanta, Obama: lei sta dicendo che anche il “centrosinistra” globale è caduto nella trappola?
R. Sì, le cosiddette “sinistre” hanno fatto proprio lo scenario secondo cui la globalizzazione è un fatto economico, laddove esso è stato un fatto eminentemente politico. E’ stato un progetto agevolato da organizzazioni internazionali che di democratico non hanno nulla, dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca Mondiale alla Commissione Europea. Le sinistre socialdemocratiche hanno adottato il paradigma della signora Thatcher, credendo al fatto che “non ci sono alternative”: perciò le sinistre si sono distinte solo per “aiutare i più deboli”, e tamponare i disastri. Il mio timore è che ancora oggi non abbiano capito che cosa è successo: sono caduti nella scena del teatro, recitando la parte che la commedia (o meglio, la tragedia) gli ha assegnato, senza rendersi conto che stanno seguendo i dettami di in un immenso sistema industrial-finanziario, agevolato nella sua crescita dalla politica e che alla politica adesso spetterebbe incivilire.
D. Il successo di questo sistema è appunto anche ideologico: esso si presente come il trionfo della ragione (o forse di una coincidenza perfetta di razionale e reale), dove invece esso è, nella sua essenza, pura irrazionalità.
R. Il finanzcapitalismo ha in questo senso radicalizzato un’istanza propria del capitalismo industriale, che ha sempre pensato la crescita come una pietra filosofale. Crescita a ogni costo, a scapito del resto. Ma questa furente irrazionalità la vediamo al lavoro nei suoi esiti tragici, sia nella distruzione dell’ambiente e di qualunque tipo di ecosistema (e qui siamo giunti a un punto limite, davvero di non ritorno), sia nella quotidiana svalorizzazione delle persone. E le persone svalorizzate, infantilizzate come consumatori, non saranno mai in grado di salvare il pianeta.
D. Lei pensa che al punto in cui siamo è possibile un “contromovimento”, un’alternativa al disastro?
R. Un contromovimento è un’incognita grossa, nella presente situazione. Credo che una reazione ai danni globali di questo sistema che ci sta dominando possa prendere due direzioni. Una che potremmo definire socialdemocratica, una autoritaria, e in Europa quest’onda è certamente montante. E’ questo il grande dilemma è questo: e su questo il dado non è tratto.
D. Lei ha segnalato qualche passo possibile da fare.
R. Sì, per esempio la gestione dei fondi pensione, potrebbe essere un passo piccolo ma significativo. La gestione dei fondi pensione è affidata alle banche depositarie che fanno investimenti i quali assicurino un futuro ai fondi stessi, prescindendo del tutto da un investimento sostenibile, responsabile. I sindacati su questo dovrebbero essere più consapevoli e presenti.
Ci sono poi riforme che si possono avviare solo in ambito internazionale, ma bisognerebbe cominciare a parlarne: e invece quando se ne parla lo si fa tirando fuori i documenti dell’UE, che però non fa altro che invocare trasparenza e sorveglianza, ciò che equivale a mettere telecamere intorno a un edificio pieno di buchi e con le fondamenta che crollano e buio all’interno. E’ di questo buio che invece occorre discutere.