Di Bruno Bosco

Quelli che stanno per venire sono giorni da resa dei conti (economici). Il governo dovrebbe tentare da un lato di ridurre le spinte al deficit per ottenere il pareggio di bilancio promesso all’Ue e dall’altro di varare misure per la crescita. Il primo obiettivo implica riduzione di componenti della domanda aggregata, il secondo implica aumenti di domanda attraverso risorse pubbliche e private. L’orizzonte temporale di riferimento è il breve o brevissimo periodo per il primo obiettivo ed il medio-lungo periodo per il secondo. Sembra la quadratura del cerchio visto anche che non si può (né si deve) agire con ulteriore tassazione dei redditi “dichiarati” e che bisognerebbe spendere tanto nella ricerca.

Aiutano la quadratura del cerchio le dieci proposte «a costo zero» recentemente avanzate da due illustri economisti, Alesina e Giavazzi (Corriere della Sera, 24 u.s.)? Per discuterle riprendo i punti in cui sono state raggruppate.

Punto 1, Introduzione dei contratti lavorativi unici contro, al tempo stesso, precarietà e inamovibilità. Penso che in primo luogo andrebbero eliminati gli schemi contrattuali più iniqui e rivista la condizione contributiva dei lavoratori precari. Poi si può pensare a contratti più flessibili dal punto di vista della gestione del tempo di lavoro e del rapporto lavoro/formazione per varie categorie. Siamo in un orizzonte temporale di medio periodo che richiede consenso sociale e costi di transazione, ammesso di ritenere valido lo schema proposto.

Punto 2, Proposta di Flex security. Essa implica meno garanzie extra-contratto (giusta causa licenziamento) con prestazioni pubblico/privato più generose se licenziati (fino al 90% salario Danimarca, 80% Svizzera, ecc.). Costo zero nel breve periodo? Ne dubito. Nella proposta del Professor Ichino l’onere è a carico della Regione (Fse) per la riqualificazione e dell’impresa per il sussidio complementare e non sostitutivo di quello attuale (disoccupazione ordinaria e speciale?). Occorre creare gli Enti bilaterali o adattare quelli esistenti. Non ci si deve aspettare un effetto redistributivo sulla labour share: è stato modestissimo in Danimarca. Dalla proposta va però presa la parte positiva sulle attività di riqualificazione, ma anche queste sono costose. Insomma si propone di abbandonare strumenti attuali imperfetti ma compatibili con le garanzie generali per i lavoratori per accettarne altri di efficacia dubbia e che, a mio parere, implicano costi.

Punto 3, Ritorno all’art 8 nella versione originaria del ministro Sacconi. Detta così sembra solo la ricerca della libertà delle libere volpi tra le libere galline. La giusta causa del licenziamento è coerente con il modello di relazioni industriali italiano dalla fine degli anni Quaranta, che è quello di diritti non negoziabili e validi per tutti (vedi punto precedente). Non ha impedito il miracolo economico e tutto il resto.
Con la globalizzazione i profitti devono essere fatti vendendo cose nuove e di buona qualità, non cose vecchie o scadenti ma a basso costo del lavoro. Non c’è limite al ribasso se i concorrenti sono Brics o paesi poveri e non si possono sostenere le esportazioni in questo modo. Nei settori più innovativi (ricerca, Ict, ecc.) la mobilità dei lavoratori ad alta qualificazione sta nelle cose ed è auspicabile anche quale veicolo di diffusione delle esperienze. Ma il contratto nazionale non disturba la tendenza alla mobilità. Diverso è il discorso della grande produzione di massa standardizzata dove occorre regolare la suddivisione dei rischi tra capitale e lavoro attraverso le garanzie del contratto e dell’art 18 per supplire alla carenza di mobilità.

Punto 4, Gabbie salariali pubbliche in ragione del diverso costo della vita al Sud (ma è sempre vero?). Io proporrei piuttosto un sostegno (ammetto, costoso) alla residenza in aree ad alto costo della vita con prestazione di servizi.

È indubbio che oggi, più che mai, la finanza non è solo un aspetto del capitalismo, ma è un vero e proprio strumento di governo, totalitario e pervasivo, delle società contemporanee. Basti pensare ai fenomeni inediti e formidabili che ne discendono: una tendenziale sussunzione della vita intera al capitale, una sempre più micidiale sussunzione del lavoro alla finanza e al debito. E, in connessione con ciò, è anche vero che si è fatta e si fa sempre più radicale e organica la fisionomia di quelle che possiamo chiamare, pur nella loro varietà, le attuali forme di governance, le attuali democrazie oligarchiche, tra ristrutturazione autoritaria dei poteri e proliferazione-disgregazione corporativa e atomizzata della società; così come è vero che oggi si fa più complesso, estremo e inedito, il problema della costituzione politica dei soggetti dell’antagonismo e del conflitto.

In sostanza, la scissione tra il sociale e il politico, al di là (anzi a causa) delle seduzioni leaderistiche e populistiche e delle varie sirene delle cosiddette primarie, si va facendo acutissima e strutturale: in forme peculiari in Italia, anche per via della particolare gabbia del bipolarismo maggioritario. Si deve inoltre aggiungere che, se questa crisi capitalistica si può definire costituente e/o sistemica, ciò non esclude affatto che essa possa essere (già) ristrutturazione e come tale contenere tutto il rischio di produrre e di governare nuove forme di passivizzazione e di frammentazione.

Rispetto a ciò, la realtà emergente, sia pur molto variegata, dei movimenti tendenzialmente antisistemici acquista un valore decisamente straordinario e reclama un salto di qualità nella riflessione teorico-politica sul problema della costruzione di una soggettività anticapitalista e comunista (come ha osservato su queste colonne Russo Spena).

Ora la metafora del «recinto», adoperata da Bertinotti per designare l’assoluta impermeabilità politica e culturale del blocco storico fondato sulla «dittatura del mercato e del capitale finanziario» (Mantovani), è senza dubbio un utile ed efficace stimolo alla discussione (e bene ha fatto «Liberazione» ad aprire e sollecitare un dibattito in tal senso): ma è un utile ed efficace stimolo a patto che tale metafora non finisca col riprodurre per l’ennesima volta lo stucchevole dualismo autonomia del sociale-autonomia del politico.

Se è vero che (come osservava Gramsci) i processi storici ed egemonici sono sempre segnati da un intreccio ineludibile di fattori oggettivi e soggettivi, allora non c’è mai un momento nella storia in cui una “rivolta” reale possa evitare di assumere quell’intreccio come un terreno di “critica pratica” di massa. Paradossalmente è quando si introiettano e si vivono culturalmente le due autonomie (del sociale e del politico) che si può restare talvolta fatalmente sedotti dalla nozione della permeabilità.

Certo, non bisogna coltivare una immagine essenzialistica e un po’ mistica del «recinto», ma una volta che esso venga ‘tradotto’ nel concetto di blocco storico, bisogna sapere che il prevalente di esso è il suo formidabile potere di omologazione e di rivoluzione passiva (in questo senso non credo oggi ad una presenza significativa di «una lotta di classe anche dentro i partiti» del centro-sinistra, per citare uno spunto pur importante di Burgio). Tutte le articolazioni tattiche e anche quelle strategiche dovrebbero essere pensate e praticate a partire da quel prevalente. Il movimento degli indignados in Spagna, nella sua rivolta contro la crisi-ristrutturazione capitalistica in atto, non cede alla sofferta retorica o al cattivo realismo del “bisogna far politica” (che può rischiare di inclinare verso scorciatoie fatalmente politicistiche), ma, ad esempio, mette al centro la lotta per una legge proporzionale pura e per lo sviluppo dal basso di forme nuove, anche inedite, di democrazia.

Rispetto ai movimenti, in questa fase più che mai una soggettività politica comunista dovrebbe costruire, o – meglio – contribuire a costruire processi di «ricomposizione attraverso i conflitti», vale a dire processi di costruzione di un vero e proprio blocco storico (non di un mero blocco sociale, incapace oggi di andare al di là di un livello economicistico, e di guadagnare il passaggio dalla «spontaneità» alla «direzione consapevole»).

Nel tempo della «mega-macchina» del totalizzante capitalismo finanziario, nel tempo di una vera e propria «crisi di civiltà, una crisi generale della civiltà-mondo» (Gallino), la costruzione del blocco storico e la costituzione politica, dal basso, dei soggetti dell’antagonismo e del conflitto sono le due facce dello stesso problema: senza questa consapevolezza la ri-fondazione di una sinistra comunista finirebbe anch’essa per trasfigurarsi e svaporare in un’astrattezza evocativa (o generosa o inefficace o subalterna), oppure finirebbe, appunto, nel cattivo realismo del «bisogna far politica». Dobbiamo cercare di evitare di diventare (nostro malgrado) strateghi della tattica. C’è un tempo in cui si pone con forza solo la via maestra e tutte le articolazioni tattiche devono essere il più rigorosamente possibile dentro la via maestra. Ad esempio, ha drammaticamente ragione Mantovani quando segnala come contradditorio il fatto che Landini, mentre propone una decisa, durissima battaglia sulla democrazia, riesca a dimenticare che è il bipolarismo maggioritario ad «espellere dalla politica istituzionale e dal governo gli interessi di classe dei lavoratori».

Critica di ciò che è «oggettivo», cioè dell’odierno potere di astrazione reale del capitale, e ricostruzione della soggettività anticapitalistica: è il nostro difficile cammino politico, in direzione ostinata e contraria.

Fonte: controlacrisi.org
 

Condividi