Dal cuore della città per riprendersi il futuro
Lo scorso 30 novembre a Perugia ho partecipato alla giornata di mobilitazione contro il ddl Gelmini perché sono una docente universitaria, o meglio una barona (o baronessa?), come mi definirebbe Gelmini, volgendo in senso reazionario - come solo questa destra sa fare - un gergo coniato nel ’68 in tutt’altro contesto. Ma anche perché sono militante nella Federazione della Sinistra e con tante compagne e compagni sui tetti, nelle facoltà occupate e nei cortei, siamo stati parte della protesta, presenti nel conflitto ma consapevoli della parzialità della rappresentanza e dei punti di vista.
Martedì scorso con studentesse e studenti, ricercatrici e ricercatori sono stata in strada a bloccare il traffico e sui binari perché penso che la comunità accademica e l’università italiana tutta non debba cercare la propria ragion d’essere nel mercato e non debba sentirsi delegittimata perché il capitalismo italiano ha deciso che dell’università di massa non sa che farsene, che il suo drastico ridimensionamento è utile a ridurre la spesa pubblica, tanto la produzione industriale italiana non è destinata a competere con l’industria ad alta tecnologia di altri paesi e dunque la manodopera cognitiva promessa dalla riforma universitaria del 3+2 non serve più. Il modello oggi è un altro: produzione materiale e competizione al ribasso (ribassando possibilmente anche i diritti di chi lavora) e, ovviamente, università d’elite. Il ddl e i tagli che lo precedono e lo accompagnano provvedono a questo, a cominciare dalla “riforma” del diritto allo studio, riconosciuto solo in funzione del merito e non del bisogno.
Ma per le strade, sui tetti, sui monumenti come nelle assemblee noi affermiamo invece che l’università pubblica è un bene comune, perché è un bene comune il sapere che produce. Perciò lo Stato non può disporne asservendola a logiche ‘altre’ ma deve invece assicurarne l’esistenza, provvedendo alle risorse necessarie per garantire il diritto allo studio e la libertà di insegnamento e di ricerca.
In difesa dell’università è sorto un movimento imponente che a Perugia ha trovato espressione, fra l’altro, nell’occupazione della facoltà di Lettere. Si sono organizzati dibattiti e spettacoli teatrali e la facoltà è stata vissuta dagli studenti e da chiunque volesse condividerla con loro 24 ore su 24: perché la facoltà anche è un bene comune. O almeno dovrebbe esserlo. Questa occupazione ha avuto un valore simbolico altissimo anche per la sua collocazione nel cuore del centro storico cittadino: una sorta di avamposto della resistenza contro la dismissione dell’università pubblica situato nel luogo in cui una delle prime università al mondo ha avuto inizio.
Gli squallidi episodi che hanno seguito (o causato) la ‘spontanea’ dis-occupazione della facoltà ripetono la logora retorica di cui per tutti gli anni ’70 si è nutrita la teoria degli opposti estremismi: dall’accusa di antidemocraticità rivolta proprio a quegli studenti che per qualche giorno hanno idealmente aperto la facoltà a tutta la popolazione (studentesca e non), alla loro diretta criminalizzazione collegata ad un oscuro accadimento che non a caso riguardava l’elezione delle rappresentanze studentesche.
Le forze dell’ordine e le autorità cittadine e accademiche che hanno auspicato la disoccupazione della facoltà di Lettere dimostrano di non aver ben compreso qual è la posta in gioco e cosa sta accadendo in questo paese e in questa città. Il ruolo che ricoprono imporrebbe ben altra consapevolezza e capacità di analisi. Ma non importa: noi continueremo nella nostra mobilitazione con pazienza e perseveranza. E infine capiranno.
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