di Agenor

Dal fiscal compact al Six pack, fino alle proposte del «gruppo dei Quattro» per arrivare a un Tesoro europeo, sono numerose le misure verso l’integrazione. Ma senza che si discuta su quale direzione si sta prendendo e senza valutare le conseguenze: l’aumento di divisioni e asimmetrie che spingono verso un’Ue a più velocità. Che sarebbe ingestibile

Nel Regno Unito c’è chi pensa a un referendum sulla permanenza nell’Unione europea che, se si tenesse oggi, secondo i sondaggi potrebbe spingere il paese ad uscirne. L’uscita della Grecia dall’Unione, pur non essendo auspicata dalle forze politiche greche, non è più un tabù sui media tedeschi. Anche questi sono gli effetti di un decennio di frenata nel processo d’integrazione fra Stati e di costruzione dell’Unione europea. Nei momenti chiave, la diffidenza verso una maggiore integrazione ha prevalso sull’orizzonte federalista dei padri fondatori, veti espliciti e pressioni implicite hanno determinato le nomine dei vertici comunitari, i negoziati sulle questioni finanziarie si sono fatti più aspri, il modello intergovernativo ha prevalso sul metodo comunitario.

L’immagine intergovernativa dell’Europa è diventata quella di un organismo con le molteplici facce dei governi nazionali alla ricerca di accordi su ciascuna politica. Di fronte all’esplodere della crisi, con margini ristretti per le decisioni, l’Europa e i suoi Stati si sono trovati sprovvisti di strumenti adeguati e sono stati i leader dei paesi più forti a dettare le regole del gioco. Lo svuotamento del metodo comunitario operato nel decennio passato ha relegato la Commissione europea ad un ruolo passivo, nella definizione delle strategie politiche, ma dotato di sempre maggiori poteri esecutivi.
Il modo in cui funziona l’Unione europea influenza quello che l’Unione fa (e non fa) e, lontano dai riflettori del dibattito politico, ci sono cambiamenti importanti in corso, dettati più dalle affrettate risposte all’emergenza che da una strategia condivisa. Il rischio, come in passato, è che la discussione pubblica si apra quando si materializzano le conseguenze di decisioni che a quel punto non si possono più cambiare. Alcune riforme del sistema di governo dell’Unione stanno modificando i rapporti di potere fra livello europeo e livello nazionale aprendo nuovi interrogativi sul nuovo assetto istituzionale che ne scaturirà.

L’approvazione del cosiddetto fiscal compact comporta l’inserimento di un vincolo di pareggio di bilancio nella Costituzione degli Stati: una delle riforme più forti mai imposte dall’esterno ad uno stato democratico. Essa ridurrà fortemente il margine di manovra di tutti i governi, presenti e futuri, nelle decisioni di politica economica. Un alto diplomatico italiano ha recentemente fatto notare come forse in questo caso ci si sia spinti ben oltre il mandato politico legittimo per gli accordi intergovernativi. È quantomeno singolare che in Italia tale vincolo sia stato votato dal Parlamento senza alcun dibattito. 25 su 27 Stati membri hanno adottato o promesso di adottare questa misura. Sarà questa la direzione di una maggiore integrazione europea?
I nuovi regolamenti che disciplinano il Patto di stabilità e crescita, il cosiddetto Six Pack, introducono il sistema di voto della «maggioranza qualificata inversa» nel Consiglio europeo. Ciò vuol dire che, ai fini delle sanzioni da imporre ad un singolo Stato nel caso di mancato rispetto del Patto di stabilità, la proposta della Commissione viene automaticamente adottata, a meno che in Consiglio non si trovi una maggioranza qualificata di Stati contrari a tale proposta. Si tratta di una rivoluzione copernicana nei rapporti di forza tra Stati e Commissione. Si inverte l’onere di trovare una maggioranza qualificata per decidere sulle sanzioni. Per ora questo istituto legislativo si applicherà solamente alla sorveglianza macroeonomica dei criteri del Patto di stabilità rafforzato, ma c’è da chiedersi se in futuro esso possa essere esteso ad altre aree e quanti Stati lo accetteranno.

L’accordo politico su una nuova tassa europea sulle transazioni finanziarie è difficile, ma sembra imminente la sua introduzione nella zona euro. Da un lato, il Regno Unito non intende approvare una tassa che colpirebbe la City di Londra; dall’altro, Francia, Germania e quasi tutti i paesi euro sembrano decisi ad introdurla. Essa avrebbe molteplici obiettivi, come segnale politico di lotta alla speculazione finanziaria, strumento di regolamentazione dei mercati, e nuova risorsa per il bilancio comunitario. Ma se una tassa applicata solo nei due terzi dell’Unione concorre a formare il bilancio comunitario, è giusto che questo venga poi utilizzato in tutti e 27 i paesi?
Anche il sistema di aiuti agli “Stati virtuosi” che dimostrino di aver «fatto i compiti a casa», secondo il piano Monti approvato nel Consiglio di fine giugno, rientra in questa serie di cessioni di sovranità. Le raccomandazioni che la Commissione europea fa a ogni Stato Membro diventerebbero i criteri in base ai quali stabilire se uno stato è «virtuoso» o meno, definendo a quali condizioni esso può accedere agli aiuti. Anche questa proposta comporta una forte scossa istituzionale: che conseguenze può avere la crescente, inevitabile asimmetria tra i paesi che possono aver bisogno degli aiuti europei e quelli che possono farne a meno?

Le nuove proposte presentate a fine giugno dal «gruppo dei quattro presidenti» (Barroso, Commissione; Van Rompuy, Consiglio; Juncker, Eurogruppo; Draghi, Bce) auspicano un’unione bancaria, fiscale e politica, fino ad arrivare ad un vero e proprio Tesoro europeo. Si parla di un’autorità di controllo bancaria comune, di assicurazioni comuni sui depositi bancari, di coordinare i bilanci nazionali, fino ad avere emissioni obbligazionarie comuni ed un Ministero del Tesoro europeo. Fino a che punto potrà effettivamente spingersi questo percorso di integrazione? Potrà essere confinato a banche e spesa pubblica ignorando l’armonizzazione delle norme sull’imposizione fiscale, la situazione dell’economia reale e dell’occupazione? E, più in generale, i passi verso una più stretta integrazione tra i paesi euro come si conciliano con organi dell’Unione europea che comprendono paesi fuori dalla moneta unica?
Dietro l’immagine di un’Europa paralizzata davanti alla crisi, vediamo così che grandi cambiamenti sono in corso nei rapporti tra stati e Unione europea. Con l’affannosa risposta intergovernativa alla crisi, avanza un processo di integrazione che porta a consistenti cessioni di sovranità, senza che si discuta la direzione che l’Europa sta prendendo, e le conseguenze per le politiche economiche e per la democrazia.

Senza un ripensamento di questo tipo, le conseguenze saranno asimmetrie e divisioni crescenti all’interno dell’Unione. Non tutti i paesi dell’Unione saranno probabilmente in grado di procedere in questo tipo di integrazione e alcuni, al contrario, iniziano a discutere di come rinazionalizzare alcune competenze. Si comincia a parlare apertamente di una ristrutturazione dell’Unione europea: paesi che si allontanano, come il Regno Unito, paesi che potrebbero uscire, paesi che decideranno di mettere in comune sempre più poteri. La lista infinita di opt-out – eccezioni nazionali alle norme comunitarie – negoziati da molti dei 27 Stati membri, rende quasi impossibile un’integrazione profonda. Ma un’Europa a più velocità rischia di essere ingestibile, visto il moltiplicarsi di strumenti e politiche alle quali partecipano gruppi di Stati diversi. Di fronte a una così ampia cessione di sovranità dal livello nazionale a quello europeo il problema che l’Europa si sta ponendo è quello della legittimità democratica. Può un organo non eletto, come la Commissione, acquisire tanti poteri?

Da un punto di vista legale, stando ai Trattati attuali, essa può assumere tutte le competenze che gli Stati membri decidono di delegare, e così sta avvenendo. Da un punto di vista politico, è evidente che essa abbia bisogno di una maggiore legittimità democratica. Le ipotesi su come accrescere la legittimità democratica sono varie: c’è chi sostiene che il Presidente ed almeno la metà dei membri della Commissione debbano essere scelti fra i parlamentari eletti nelle elezioni europee; altri ritengono che il Presidente della Commissione debba essere eletto (e non solo ratificato, su proposta del Consiglio, come ora) dal Parlamento europeo; e chi si spinge oltre fino a chiederne l’elezione diretta dai cittadini di tutta l’Unione. A quel punto i candidati dovrebbero essere personalità in grado di sostenere una campagna elettorale in 27 paesi diversi, in 23 lingue diverse. Un’Europa capace di funzionare meglio, con più democrazia, richiede forse di ripensare a come organizzare la politica a scala dell’Europa.

(Agenor è un esperto di questioni europee che vive a Bruxelles. Nella mitologia greca, Agenore è il padre di Europa)

Fonte: Il Manifesto

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