C’è un’orgia in Italia di cui non parla nessuno: l’orgia delle privatizzazioni. E se se ne parla è per dire bugie. Come quando si dice che il popolo dell’acqua vorrebbe il ritorno a un passato di inefficienza quando pensa di sottrarre il servizio idrico all’ingordigia delle multinazionali. “Come quando si sostiene che sia l’Europa a imporre la privatizzazione di un bene comune oppure che la privatizzazione, aprendo alla concorrenza, apra a un abbassamento delle tariffe e al miglioramento dei servizi. Dalle esperienze in corso si ricava il contrario. Perchè l’acqua è un monopolio naturale e il prezzo lo decide chi lo detiene”. Margherita Ciervo fa parte del comitato pugliese Acqua bene comune. Ieri era a Roma, nella sede del sindacato dei giornalisti, per il lancio della campagna referendaria per i due Sì. Si tratta, ricordarlo fa bene, dei quesiti più sottoscritti nella storia repubblicana e promossi in prima persona dalla società civile (e Liberazione figura tra i promotori accanto ai movimenti per l’acqua). I partiti, come Rifondazione comunista (“pronta a intrecciare il tema dei beni comuni nella imminente campagna per le amministrative”, dice Maria Campese, responsabile Ambiente del Prc) o Sinistra critica, sostengono l’iniziativa senza se o senza ma. Altri, come il Pd, l’Idv e i vendoliani di Puglia, hanno un atteggiamento quantomeno ambiguo. Ma la raccolta di firme – un milione e quattrocentomila, tre volte oltre il necessario e in tempi record – ha fatto breccia trasversalmente nell’elettorato tanto da spingere il governo ad annunciare, per domani, una “riforma” dei servizi pubblici locali che ha il sapore di uno scippo per chi ha dato vita a questo soggetto politico inedito: “il popolo dell’acqua, appunto, che manifesta la stessa sete di dignità che è scesa in piazza sull’altra sponda del Mediterraneo”, ricorda il missionario comboniano Alex Zanotelli chiedendo alla “sua” Chiesa di schierarsi contro quella che definisce essere “una bestemmia, il decreto Ronchi. In Europa solo l’Italia ha privatizzato l’acqua attraverso il Parlamento”.
Così il movimento rilancia: “Niente scippo ma si accorpino i referendum alle amministrative di primavera e si stabilisca una moratoria nell’attuazione del decreto Ronchi almeno fino all’esito della consultazione”, ricorda Paolo Carsetti del comitato referendario presentando il logo, scelto in un sondaggio on line cui hanno preso parte in diecimila. A vincere è stata l’idea di Michele Giugni del comitato pratese.
Se il percorso è accidentato, il popolo dell’acqua è deciso a far parlare di sè. Sabato e domenica spunteranno banchetti ovunque per provvedere all’”autofinanziamento partecipato” su modalità originali: funzionerà come un prestito restituito una volta che il comitato referendario avrà ricevuto il rimborso previsto dalla legge. L’agenda è piuttosto articolata: prima della scadenza classica – la manifestazione sui beni comuni prevista stavolta il 26 marzo – ci sarà il festival dell’acqua a Sanremo, in parallelo con la kermesse canora, il 17 e il 18 febbraio, con Andrea Rivera e gli Yo Yo Mundi. Poi ci sarà un convegno sul modello di gestione che ha in mente il popolo dell’acqua per scongiurare che carrozzoni clientelari e corrotti si sostituiscano ai loghi famelici delle multinazionali e delle mafie. A spiegare la modernità di questa battaglia, oltre al comboniano che ha ricordato le stime sui rifugiati climatici, c’è il giurista Stefano Rodotà che ricorda l’articolo 43 della Costituzione in cui si prevede già che comunità di lavoratori e utenti possano gestire servizi essenziali. “L’unificazione politica – per Rodotà – sta avvenendo proprio sui beni comuni”.
A quell’articolo s’è già ispirato il comitato pugliese che ha scritto, in un tavolo paritetico con la Regione, la legge per ripubblicizzare l’Aqp (il più grande acquedotto d’Europa e terzo nel mondo) che Vendola aveva giurato di far passare nei primi cento giorni. Quel ddl (dopo aver resistito a un tentativo di modifica da parte dell’ufficio legislativo regionale) arranca ancora in Commissione e alcuni emendamenti del Pd rischiano di snaturarlo “annacquando” i principi che l’hanno ispirato (organismo di diritto pubblico, gestione partecipata, servizio minimo garantito ed esclusione del profitto) con la cessione di “attività collegate” non meglio definite a società miste. Gli interessi di Caltagirone e della Marcegaglia sull’Aqp sono noti. Meno noti sono il tentativo di congelamento del ddl da parte del capogruppo di Sel e il silenzio che il presidente del consiglio regionale (di Sel) oppone da mesi alla richiesta del comitato di un incontro con i capigruppo.

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