Elio Clero Bertoldi

Lo chiamavano Turnino. E nelle nostre zone, almeno sino a qualche lustro fa, il soprannome aveva più valore, per indicare e riconoscere una persona, che non il nome, il cognome e le generalità complete.

 

Il suo lavoro? Una sorta di commercio ambulante. Girava per le strade poderali, anche le più dissestate, per mettere a segno piccoli affari con i contadini della zona compresa tra i Comuni di Todi, Montecastello di Vibio, Fratta Todina, dove abitava. Un lavoro impegnativo ma sufficientemente remunerativo, con il quale l'ambulante sbarcava il lunario, anche in tempi di magra quali erano quelli di guerra, per se stesso e per la sua famiglia, composta dalla moglie e da una figlia.

 

La sua ricchezza consisteva, soprattutto, in una cavalla dal mantello rossiccio, alla quale non nascondeva di essere affezionatissimo ("Quasi, dio mi perdoni, come a una figlia" - confidava) e nel calesse con il quale si muoveva da un posto all'altro. D'estate e d'inverno, con la pioggia e col sole. Commerciava sale, sigarette, qualche indumento, qualche oggetto che magari prendeva in città, anche su ordinazione della clientela e riceveva in cambio, più che soldi in contanti - in campagna ne giravano pochi - uova, animali da cortile, vino, olio, frutta, insaccati, pelli di coniglio quello insomma di cui i contadini avevano disponibilità in virtù del loro lavoro.

 

Un mago del baratto, insomma, Turnino. Il commerciante, per l'ambiente che frequentava, poteva considerarsi un elegantone, con il suo gilet di pelle e pure con le sue giacche troppo abbondanti ("a ccallanza") per il suo fisico esile, le sue cravatte vecchie e lise, forse anche quelle, frutto di scambio. Colpiva, a vederlo, il suo corpo magro, agile anche se non più giovane, la pelle del volto e delle mani secca e bruciata dal sole e due occhi mobili e vivacissimi.

 

Anche quella assolata mattina di primavera inoltrata del 1944, lui all'alba era già in movimento, aveva concluso discreti affari e stava tornando verso Fratta Todina. Superato il ponte sul Tevere, a Montemolino, si era imbattuto in due soldati tedeschi, immobili, con i fucili in spalla. Lui li aveva salutati, pensando di poter tirare dritto, ma uno di loro si era spostato al centro della strada polverosa, proprio davanti alla cavalla, afferrandola per le briglie, mentre l'altro si era rivolto direttamente a lui, in modo brusco, intimandogli di scendere. E quando Turnino, con un salto, era balzato giù dal calesse si era sentito rivolgere una sola parola: "Requisito". La cavalla, il calesse e l'intero carico, insomma, preda di guerra dell'esercito nazista.

 

Sorpreso dall'azione e dalla situazione, così improvvisa e imprevista, Turnino, che pure aveva la battuta pronta, era rimasto in silenzio, interdetto. E, sempre fermo in mezzo alla strada, aveva visto allontanarsi la sua cavalla, il suo calesse, i suoi beni. Riavutosi dalla sorpresa, non si era arreso al guaio che gli era capitato tra capo e collo e aveva cominciato a seguire i due tedeschi. Che ben presto si erano accorti di essere tampinati, tanto che uno dei due, imbracciato il fucile, aveva sparato, a scopo intimidatorio, un colpo alto, ma in direzione dell'ambulante.

 

Minaccia, chiara, chiarissima, che non aveva scoraggiato Turnino, il quale si era solo fatto più prudente, rallentando la sua marcia, prendendo scorciatoie, cercando riparo dietro le siepi e gli alberi. Dopo una curva, davanti allo spiazzo di una osteria, sempre lungo la strada per Fratta, Turnino vide, da lontano, la sua cavalla, col calesse, assicurata ad una staccionata. Si avvicinò, cauto e senza far rumore e udì provenire dall'interno della taverna le voci inconfondibili dei due tedeschi, che si erano fermati per bere un bicchiere di vino e trangugiare qualcosa.

 

Per Turnino quella sosta - lui almeno pensò così, senza rendersi conto di quanto sbagliato fosse il suo intuito - rappresentava una grazia di dio. Una opportunità ghiotta per riprendersi indietro la sua "roba". In un attimo decise di avvicinarsi, di slegare l'animale e di allontanarsi il più rapidamente possibile. La cavalla, però, nel vederlo nitrì e quel nitrito, di saluto e di affetto, segnò il destino di Turnino. I due tedeschi dal volto truce si fiondarono fuori dall'osteria armi in pugno e sorpresero l'ambulante con in mano le redini della bestia. Gli berciarono contro qualcosa, a muso duro e sempre con i fucili spianati e poi chiamarono l'oste. Al quale ordinarono di portare, e svelto, una pala. Che scagliarono in terra, ai piedi di Turnino: "Scava" - fu l'intimazione.

 

Il commerciante ritenne che volessero "cojjonallo", cioé soltanto dargli una lezione, burlarsi di lui, divertirsi un poco a sue spese, magari spaventarlo, per cui si mise al lavoro, senza fare alcuna opposizione, neppure verbale. Si tolse anche la giacca e la camicia per avere meno ingombri nel manovrare il badile. Quando pensò che la buca, nella quale si trovava, fosse abbastanza profonda, alzò la testa e disse: "Basta così?". Fu in quel momento che venne investito, letteralmente, da una raffica di pallottole. Non fece in tempo, Turnino, neppure a rivolgere un ultimo sguardo alla sua cavalla, per la quale stava morendo e che, per il rumore degli spari, aveva fatto uno scarto all'indietro.

 

I due soldati tedeschi non rientrarono nemmeno nell'osteria per finire quello che avevano cominciato e proseguirono il loro cammino. Nessuno li vide più. Nessuno ha saputo i loro nomi di assassini a sangue freddo. Soldati semplici o appena graduati, eppure intrisi di fanatismo, figli di un modo di essere e di pensare fin troppo in linea con l'ideologia hitleriana.

 

Il massacro del povero Turnino resta uno dei tanti, troppi, crimini contro l'umanità, consumati dai nazisti e rimasti purtroppo impuniti.

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