“Quel singolare silenzio di Thyssen”
“Opacità”: è questa la parola chiave nell'analisi di Claudio Carnieri, profondo conoscitore della realtà dell'Ast, non solo per la sua provenienza ternana, da una famiglia operaia delle Acciaierie, ma anche per l'esperienza diretta, da presidente della Regione Umbria, all'inizio degli anni '90, nella delicata fase di privatizzazione della più importante azienda regionale. E oggi che l'Ast sta per passare nuovamente di mano, Carnieri, nel frattempo divenuto presidente dell'Agenzia Umbria Ricerche, non vede chiaro in questa “vertenza anomala”, dove tanti interessi di diverso genere sono in ballo.
Prima di arrivare ai suoi dubbi, facciamo un po' di storia. La situazione di 20 anni fa non era poi così diversa da quella attuale, no?
Nel 1994, come Umbria, ci battemmo perché le Acciaierie passassero nelle mani di un grande soggetto internazionale. Ci furono vari interlocutori, finanziari e industriali, e anche un po' di sbandamento sul territorio, tanto che si parlò persino di azionariato popolare. Ma noi sapevamo che solo un grande player poteva garantire un futuro al sito di viale Brin. Così, con l'Iri di Romano Prodi ed Enrico Micheli, puntammo sui tedeschi. Oggi, l'obiettivo deve essere il medesimo: solo un grande gruppo, per capacità finanziarie e di impresa, può dare garanzie per il futuro.
Ma cosa portò i tedeschi di Krupp e poi quelli di Thyssen a Terni?
Posso dire senza retorica che “la Terni” l'hanno salvata le lotte dei lavoratori. Nel senso che negli anni precedenti alla privatizzazione noi avevamo ottenuto, grazie a mobilitazioni anche clamorose (fino all'occupazione della sede di Finsider nel 1987 a Roma), qualcosa come 450 miliardi di investimenti, che saranno poi fondamentali per rendere il sito di Terni all'avanguardia e molto appetibile sul mercato. Poi, ThyssenKrupp nel corso degli anni ha fatto altri ingenti investimenti, circa 500 milioni di euro, rafforzando ulteriormente la posizione del polo siderurgico ternano. Va anche detto, però, che i tedeschi hanno ricavato almeno il triplo di quanto hanno investito.
E qui siamo al primo dei suoi dubbi, giusto?
C'è un singolare silenzio di Thyssen, che prima ha ristrutturato il gruppo nelle due divisioni, “Materials” e “Technologies”, e in seguito ha dato vita ad Inoxum, un terzo contenitore molto complesso, per l'ampiezza e la forza dei siti su scala mondiale (dai quelli tedeschi di Bochum e Krefeld, agli Usa, al Messico, al Brasile, a Shangai, fino al sito ternano), per poi portarlo sul mercato, arrivando all'idea di una fusione, con l'Outokumpu (30% e 70%) che ha una “stazza” ben minore, seppure con la sua specializzazione nell'inox. Si dovrebbe dunque arguire che Thyssen vuol rimanere nella siderurgia europea. Outokumpu, entrato in campo, esaltò subito la eccezionalità tecnologica di Ast e la sua complementarità con i siti finlandesi e svedesi. Non una parola sugli altri siti produttivi di Inoxum. Poi tutto precipita nella vendita brutale del sito ternano. Quindi, fa bene Landini a dire che in questa vertenza bisogna tener dentro assolutamente anche i tedeschi. Cosa voglia fare in futuro Thyssen, infatti, non è per nulla indifferente. Si ritirano dal mercato dell'inossidabile? Oppure restano un competitor europeo? Bisognerà che qualcuno glielo chieda. Il governo italiano avrebbe dovuto muoversi per tempo, ma non l'ha fatto. Lo farà nelle prossime settimane?
Ma lei sulle ragioni di Thyssen un'idea se l'è fatta?
No, ripeto, c'è grande opacità. Ricordo però che quando vivemmo la battaglia per il magnetico (Thyssen decise di portare via la produzione da Terni, ne seguì una dura vertenza che portò in piazza fino a 30mila persone nella città umbra, ndr) dietro le ragioni ufficiali c'era molto di “non detto”: un accordo tra francesi, tedeschi e spagnoli per spartirsi il nuovo mercato delle forniture all'elettrodomestico bianco nell'Europa dell'Est e in Russia. Con il risultato che l'Italia, che era il maggiore utilizzatore di acciaio magnetico, è diventata un importatore.
Arriviamo ad Outokumpu. Qual'è l'altro aspetto opaco della vicenda?
Beh, spiegatemi come è possibile che una multinazionale – e sappiamo con quanta circospezione e cautela si muovano – decida di vendere un sito prima averne completato l'acquisto. Perché la questione della concorrenza europea regge fino a un certo punto. Possibile che prima di acquistare e fare proclami sulla centralità di Terni nel Mediterraneo, non si siano fatti due conti sui livelli di produzione che avrebbero raggiunto?
Fatto sta che i finlandesi intendono vendere, ma chi può comprarsi Ast?
Qui si apre il problema più grande, perché, come abbiamo detto, ci vuole assolutamente un global player. Ma mentre Outokumpu, come ThyssenKrupp, è un gruppo europeo, se arrivano – e sarebbe un fatto molto importante - i coreani di Posco, quarto gruppo mondiale in assoluto, con una produzione di quasi 40 milioni di tonnellate e che hanno già investito in Turchia, la questione si potrebbe complicare: che cosa ne deriverebbe per gli equilibri europei? Per questo dico, occhi aperti su quello che intende fare Thyssen oltre che Outokumpu, perché il sito di Terni è indubbiamente appetibile per i grandi gruppi globali dell'acciaio, i quali possono essere interessati alle produzioni e/o solo alle quote di mercato. Così, alla fine ci potremmo ritrovare con un piccolo sito staccato dai grandi flussi mondiali. Per ciò il tema riguarda prima di tutto la nazione italiana e il presidente del consiglio.

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