Hobsbawm nel segno di Gramsci e del Jazz
«Gramsci? Un dono che la campagna ha fatto alla città». È una battuta di Eric Hobsbawm, lo storico gallese e tra i massimi storici britannici, che proprio oggi compie novantanni. Bella perché azzeccata, riferita com’è a una figura ponte tra masse oppresse e alta cultura del 900, un sardo di ascendenze albanesi, capace di ergersi a visioni globali. Ma bella quella frase perché racchiude tutto il senso delle passioni e del lavoro di Hobsbawm. Ovvero, l’impegno di conoscenza storiografica, volto alla liberazione delle classi subalterne. Nel contesto dello stato-nazione e in quello più ampio del mondo unificato dalle rivoluzioni industriali, a partire dalla prima nell’Inghilterra del 700.
Ma chi è Hobsbawm? Lo abbiamo detto, un grande storico e poi un amico e un ammiratore dell’Italia, e del Pci in particolare, alle cui fortune culturali e alla cui (contrastata) «egemonia» è legata una parte rilevante della sua biografia. Un’Italia incontrata per la prima volta da «emigrante» a due anni, nel passare da Trieste a Vienna. Da cui fuggirà a fine anni trenta per sottrarsi alla persecuzione nazista.
Italia reincontrata negli anni 50, in visita da Londra, con una lettera di presentazione al Pci di Piero Sraffa. Ma a quel tempo Hobsbawm era già entrato nel circolo aureo degli storici marxisti di Past and Present leggendaria rivista, all’inizio non esclusivamente marxista, a cui prendevano parte Cristopher Hill, studioso della rivoluzione inglese, E. P. Thompson, storico sociale e della classe operaia, Victor Kierman, storico dell’imperialismo.
Dunque Hobsbawm comunista e marxista, che si cimenta con la «storia dal basso»: briganti, ribelli, emarginati, profeti popolari e contadini. Ad esempio studia Il Davide Lazzaretti ribelle «escatologico» del Monte Amiata, ignorando che di lì a poco ne avrebbe ritrovato la figura in un’opera destinata a cambiare la sua vita intellettuale: I Quaderni del Carcere. È Gramsci infatti che muta il suo approccio dottrinario benché mai stalinista. Gramsci che lo persuade che la rivoluzione è un processo complesso, variegato, «chimico». Che risente delle «onde d’urto» internazionali e le ritraduce nei contesti nazionali. Con rivoluzioni attive, rivoluzioni passive, arretramenti, esplosioni, avanzamenti.
Ecco allora che la scoperta di Gramsci e del Pci, fanno di Eric Hobsbawm quasi un propagandista della «diversità» di entrambi nel mondo comunista. Un lavoro di sdoganamento e rilancio del marxismo in sede politica e storiografica che parte nel gallese dall’amore per quei Quaderni, su cui relaziona al primo dei grandi convegni gramsciani, quello del 1958. E così, fecondate da quelle letture, arrivano le grandi opere di Eric Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, 1789-1848; Il trionfo della borghesia, 1848-1875; L’età degli imperi, 1875-1914. Ed ancora, gli studi sui briganti, cartografia sociale e antropologica della rivolta endemica di classi sottomesse che stanno ai margini e incalzano, ma non si fanno «dirigenti». E poi, il saggio introduttivo alla Storia del marxismo* Einaudi, mappa minuta e ancor valida per orientarsi nel dedalo dei «marxismi» novecenteschi. Infine il suo capolavoro, quello che ha fatto tanto parlare, uscito in Italia da Rizzoli: Il Secolo breve, 1914-1991.
Qual è l’idea di fondo, gramsciana, e compendiata già nel titolo? Quella di un 900 come «età degli estremi», tra massacri di massa e progresso della scienza e dei diritti. Di un mondo unificato dalla tecnica, tra barbarie ed emancipazioni collettive. Dove un punto di svolta è dato dalla prima guerra mondiale, in cui precipitano in lotta gli imperialismi dei grandi stati-nazione. E il punto finale sta nell’ammaina bandiere al Cremlino, nel natale del 1991.
Periodizzazione criticata quella di Hobsbawm, specie sul « terminus ad quem». Visto che la dinamica di guerre e imperialismi, dopo quella data, è ricominciata sotto forma di nazionalismi, guerre di civiltà e nuovo disordine mondiale, all’ombra dell’unipolarismo americano. E tuttavia proprio Hobsbawm,ragionandone con Antonio Polito in una intervista Laterza del 1999 (Intervista sul nuovo secolo) si è mostrato ben consapevole che il suo secolo «breve» si allunga, riproducendo all’infinito, e con maggiore espansione delle forze produttive, tutti i fenomeni in precedenza descritti e avviati dal 1914: lo squilibrio tra stati nazione e cosmopolitismo globale, non governato.
Due volte gramsciano Hobsbawm, nell’indicare quello squilibrio, e nel segnalare la prima volta in cui si manifesta e cioè la prima guerra mondiale. E oggi? Oggi Hobsbawm è in bilico tra disincanto, difesa illuminista dell’universalismo, e rivendicazione di ciò che resta dell’utopia comunista. Intesa come capacità di resistenza al dominio planetario sui diseredati. E del resto, pur nel disincanto, Hobsbawm si oppose, da comunista italiano «acquisito», alla svolta dal Pci al Pds.
E il giudizio sul comunismo reale? Per lo storico fu decisivo, malgrado le oppressioni e i fallimenti, a favorire e stabilizzare il Welfare in occidente. E a «con-causare» l’età dell’oro: il cinquantennio che va dal 1945 alla metà dei novanta. Ultimo appunto: Hobsbawm è anche un grande amante del Jazz, «musica nera dei subalterni». E scrisse col nome di Frank Newton, tromba di Billie Holiday, The Jazz scene, una storia del genere. Lo incoraggiò Gramsci, quando in carcere predisse: «un giorno berremo il caffè al mattino col jazz ».*
questo e altri saggi sono stati ripubblicati l'anno scorso nel volume "Come cambiare il mondo", Rizzoli

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