A Taranto muore un mondo intero, l'Ilva deve cambiare
Mi separo dalle mie emozioni e cerco di leggere con freddezza il senso di ciò che sta accadendo dentro e fuori l'Ilva di Taranto. Dentro il più grande stabilimento siderurgico d'Europa. Dentro una città che soffre un dolore lancinante e che inciampa sulle proprie paure. Dentro un perimetro giudiziario in cui rimbalzano quesiti forti e taglienti, che infilzano tutto il buon senso e tutte le leggi che hanno regolato finora il rapporto complesso tra industria e ambiente, e più specificamente il rapporto tra produzione e salute. A Taranto succede che muore un mondo intero, finisce un secolo che ancora arranca nella nostra quotidianità, scivola fuori dalla scena un paradigma culturale che ha organizzato le nostre società e le nostre economie: o si trova un equilibrio reale tra il lavoro e la salute, oppure un giudice stabilisce che la vita è incommensurabilmente il bene primario da tutelare. E da questo punto di vista si capovolge un modo astratto e convenzionale di normare la materia dei limiti alle emissioni: non possiamo chiedere ai corpi delle persone di adattarsi alle soglie dei veleni, ai nanogrammi, ai vincoli prestabiliti, bisogna viceversa partire dalla corporeità della vita e del vivente, dalla sua inviolabilità, per definire le linee di demarcazione tra una emissione lecita e una illecita. Questo diventa un tema non più rinviabile quando prende la parola l'epidemiologia, quando le evidenze scientifiche individuano un nesso causale tra inquinamento e patologie, quando dal registro dei tumori si comincia a leggere criticamente la dinamica della morte propagata dagli effetti collaterali di un ciclo produttivo.
Questo significa che è fatale spegnere l'area a calda e preparare il funerale della grande fabbrica? No. Questo significa che l'Ilva - che ha molto peccato in questi decenni ereditando dall'Italsider di Stato una stizzita indifferenza alle implicazioni ambientali e sanitarie della propria attività - deve cambiare registro, deve mettere mano al portafoglio e fare in fretta cento cose concrete: non un piano industriale che assomigli ad una vaga ambientalizzazione, ma un cambio epocale dei propri stabilimenti e delle proprie tecnologie. Ma anche un cambio serio di mentalità. Tocca all'azienda, che cumula profitti immensi, mettersi in gioco. E qui si svela la natura di un conflitto che viene rappresentato come contrapposizione tra diritto al lavoro e diritto all'ambiente: in verità è un conflitto sommamente politico tra il partito del profitto e gli interessi sociali e vitali di comunità sempre più consapevoli, che chiedono, ad un tempo, il lavoro e la salubrità del contesto urbano, che chiedono di guadagnarsi un reddito senza rischiare la pelle. Insomma a Taranto sta crepando un'epoca che ha costruito ricchezza stuprando la vita. Ecco, ora si tratta di capire se quelli di oggi sono solo i dolori di una morte o possono diventare le doglie di un parto. Di una rinascita che non riguarda solo Ilva, che va molto oltre il capoluogo ionico: l'inquinamento non è certo una specialità pugliese, nella pianura padana il PM10 vola in quantità superiori anche di 8-10 volte rispetto a quelle che si registrano nell'area tarantina. Siamo invischiati in una trama di veleni. Spezzare la trama è l'unico futuro possibile.

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