di Leonardo Caponi

PERUGIA - Il Partito della Rifondazione Comunista nasce formalmente il 15 dicembre del 1991 a conclusione del Primo Congresso che si svolse a Roma al Palazzo dei Congressi dell’Eur. Nei mesi precedenti era stato operante il Movimento per la Rifondazione comunista, costituito al termine di una assemblea straripante ed entusiasta svoltasi al Teatro Brancaccio il 10 febbraio dello stesso anno, a pochi giorni di distanza dalla conclusione del Congresso di Rimini che, il 3 di febbraio, aveva sancito lo scioglimento del PCI e la costituzione del PDS. Dal Congresso si erano distaccati l’ultimo giorno una novantina di delegati, i quali in una Conferenza stampa tenuta dal gruppo dirigente costituente, formato da Armando Cossutta, Sergio Garavini, Ersilia Salvato, Lucio Libertini e Rino Serri, avevano annunciato, non aderendo al PDS, la loro volontà, così recitava il comunicato, di “impegnarsi per la rifondazione comunista nelle forme liberamente realizzate e da realizzare, di centri che associno aderenti e sostenitori e che abbiano collegamento e coordinamento su scala nazionale e locale”.

Ci fu una discussione sul fatto che ci fosse stata o meno una troppo stringente “precipitazione” nella trasformazione del movimento in Partito e se non fosse stato più conveniente ed inclusivo prolungare i tempi e le modalità di vita del movimento. Cosi come, in sede congressuale, ci fu una discussione circa il nome da imporre al nuovo partito, se cioè insistere o meno sul termine di “rifondazione”, piuttosto che di partito, intendendo in questo modo sottolineare un processo innovatore, non determinato e non compiuto, ma in divenire, della ricostruzione di una forza comunista in Italia. Curiosamente la componente più tradizionalmente legata alla storia e alla cultura del vecchio Partito Comunista, la corrente cosidetta “cossuttiana”, di cui Guido Cappelloni condivideva la direzione, si schierò senza dubbi dalla parte più, per così dire, innovativa ed ottenne, almeno formalmente, un successo. In relazione ad un altro possibile punto di discussione di questi anni, sollevato in questo caso da compagni vicini a Cappelloni, rappresentato dall’interrogativo circa la reale determinazione con la quale il gruppo dirigente della scissione, ma in particolare Cossutta, giunse al Congresso di Rimini, personalmente, ho sempre ritenuto che, in realtà, tutti gli scissionisti, a partire da Cossutta, non avessero dubbi e che la estrema proposta rivolta al nascente PDS di Occhetto di dare vita ad una Confederazione che evitasse il trauma di una separazione lacerante, fosse dettata non da incoffessabili disponibilità alla rinuncia dell’autonomia dei comunisti, quanto, semplicemente, dalla volontà di far ricadere sugli “altri” la responsabilità della rottura, oltre naturalmente che da una certa cautela sul futuro ignoto verso il quale, tutti avevamo coscienza, ci si incamminava.

Fin dall’inizio e fin dal primo congresso la storia del nuovo partito si presentò appassionante e tormentata, ricca di straordinarie tensione e partecipazione politica, ma anche di conflitti, essendo questi ultimi principalmente riferititi ai gruppi dirigenti nazionali e locali. Il “No” alla scomparsa di una presenza comunista in Italia aveva accomunato forze di diversa ispirazione e provenienza dell’universo comunista e il cimento di Rifondazione sarebbe stato di quello di “fondere”, o almeno più semplicemente far convivere e lottare insieme, culture e tradizioni difformi e, nello stesso campo politico, anche lontane. E’ questa, credo, la scommessa, purtroppo perduta in questi anni e che però, questa è la mia opinione personale e chiedo scusa per la digressione nell’attualità, andrebbe assolutamente, in forme allargate ai movimenti e alle forze della cosidetta sinistra di alternativa, oggi ripresa, e anche con urgenza non più dilazionabile.

Se è esistito ed esiste un problema di iconografia ufficiale dell’evento, io credo che il nome di Guido Cappelloni possa e debba a pieno titolo figurare tra quello dei “Fondatori” di Rifondazione Comunista, (insieme peraltro a quello di Bianca Bracci Tors) e vada quindi “aggiunto” a quello dei cinque protagonisti della Conferenza stampa di Rimini. Anche Cappelloni e Bianca infatti, insieme agli altri sottoscrivono presso il notaio Fabbrani Bernardi di Rimini, nelle ore in cui viene fondato il PDS, l’atto formale di conservazione del vecchio simbolo per così dire “dismesso” del PCI. Ed è ancora Guido che pochi giorni più tardi, il 25 febbario 1991 a Roma, presso il notaio Ciocci, insieme a Mauro Belisario ed Elvira Lissiach, costituisce giuridicamente, su mandato dell’Esecutivo nazionale, il Movimento per la Rifondazione comunista. Ma al di là dei fatti “formali” che pure hanno certo un senso nell’ambito di una ricostruzione storica, è il ruolo politico di Guido Cappelloni che ne fa una delle figure di maggiore peso pratico e di importante rilievo politico nella fase, per cosi dire, preparatoria di Rifondazione comunista, nella sua nascita e nei primi anni della sua vita.

Se la corrente cossuttiana costituiva l’ossatura fondamentale del partito, di quella corrente, di cui Cossutta era l’indiscusso leader politico, Guido era l’infaticabile mente organizzativa e il braccio operativo, quello tra l’altro, se posso dire così, più avvicinabile e a contatto con i compagni. E’ Guido che, nelle settimane precedenti il Congresso di Rimini, organizza la stampa dei tagliandi di adesione al Movimento della Rifondazione comunista e, nel corso della stessa assise, ne cura personalmente e riservatamente la distribuzione ai delegati scissionisti e ai compagni più fidati. Le tessere riproducevano, come si ricorderà, il simbolo del PCI disegnato e donato al Partito da Renato Guttuso (segno grafico che esercitava una straordinaria attrazione di popolo). I tagliandi recavano la nuova scritta Movimento per la rifondazione comunista e avrebbero potuto avere una duplice valenza, sia nel caso della scissione, sia nel caso, come detto ritenuto altamente improbabile, di una Confederazione col PDS.

Ma il contributo di Guido alla vita e al decollo del nuovo partito è fondamentale, nella sua veste di Tesoriere nazionale, nella acquisizione della prima sede, bella e centrale, di via Barberini, “presa”, curiosamente e casualmente, in affitto dalla famiglia De Lorenzo, quella del Ministro finito il galera per gli scandali della sanità e nell’acquisto della sede definitiva di via del Policlinico che credo costituisca oggi (non vorrei entrare in cose che non conosco) un patrimonio fondamentale per la sopravvivenza di Rifondazione comunista. Ricordo che Guido curò meticolosamente (discutendone però anche con gli interessati) la ripartizione e la assegnazione degli uffici di via Barberini, poiché nella liturgia comunista questa, oltre che collegata alla funzionalità del lavoro, è indicativa della gerarchia da assegnare ai settori di lavoro ed anche ai compagni che vi sono impegnati.

Gli scritti fino ad oggi dedicati alla storia di Rifondazione (quelli di Oliviero Diliberto e di suo fratello, di Ersilia Salvato, Sandro Valentini e modestamente del sottoscritto, forse anche altre che conosco meno) illustrano nel dettaglio quella che era la composizione e le varie culture politiche costitutive del Prc, le dinamiche, gli equilibri e gli scontri interni. Essi configurarono all’inizio una vera e propria “babele” di linguaggi e sensibilità, tenute però insieme da una straordinaria passione politica della quale Rifondazione ha indubbiamente rappresentato una pagina memorabile. Per la verità, per tutta una fase, ci fu, nelle discussioni interne al partito, una semplificazione piuttosto drastica: i cossuttiani da una parte, tutti gli altri, o quasi tutti, contro. Lo scontro Cossutta Garavini, che si concluse con la sostituzione del primo segretario, fu sostanzialmente originato dalla volontà, che non ho mai compreso, del secondo di, lo dico così, “fare fuori Cossutta in un partito cossuttiano”. Non l’ho mai compresa perché l’ho ritenuta un errore macroscopico e una pretesa irrealistica, in relazione alla statura e all’esperienza politica di Sergio Garavini, che ricordo peraltro con grande stima e rispetto. Non c’erano naturalmente di mezzo questioni di antipatia caratteriale; Garavini riteneva che l’assegnazione di un ruolo di primo piano a Cossutta, per il timbro di filosovietico che costui si portava addosso, avrebbe pregiudicato lo sviluppo del nuovo partito. Una tesi infondata, ma soprattutto, come dire, tardiva, dal momento che Garavini sapeva dall’inizio chi sarebbe stato il suo principale compagno di viaggio. Cappelloni (e il resto della corrente) seguì senza riserve la battaglia di Cossutta al quale va riconosciuto, in questa occasione, di avere compiuto un vero e proprio capolavoro politico (dal suo e da quello che era il nostro punto di vista) nell’essere riuscito nel vertice ristretto del partito a sovvertire l’iniziale sfavorevolissimo rapporto di forze e a garantirsi una maggioranza di dirigenti che avrebbe isolato Garavini e lo avrebbe indotto a rassegnare le dimissioni.

Mi piace ricordare che la lotta politica interna, pure aspra, era combattuta, allora, in una fase di “espansione” del Partito, determinata dai rapporti di forza e dalle condizioni politico sociali dell’epoca che non è, in questa sede, il caso di analizzare. Anzi, forse non è arrischiato sostenere che, per una fase almeno, la presenza di culture diverse in Rifondazione è potuto essere un motivo di attrazione di forze e militanti. Però, nell’ambito di una riflessione sull’esperienza di questi venti anni, non si può non sfuggire ad un ripensamento critico che riguarda quei conflitti e, mi sento di dire, soprattutto, quelli successivi. Tra le altre cose, va chiamata in causa, a mio giudizio, la natura peculiare dell’essere comunista, la coerenza, quando è spinta fino all’irragionevole, con le proprie idee e quindi la fede incrollabile nella loro giustezza rispetto a quelle degli altri e l’idea della missione “suprema” e, in quanto tale la presunzione di considerarsi ogni volta di fronte alla Storia con la S maiuscola e di dare, sempre, un peso irrevocabile e definitivo alle scelte. Mi scuso per la digressione e finisco col dire che se era criticabile l’eccesso di conflittualità politica nell’epoca dell’espansione, mi sembra, scusate, addirittura demenziale oggi in una stagione nella quale la sinistra rischia l’estinzione.

Anche nell’ambito dei conflitti interni venne fuori la storia dei “soldi da Mosca”, con gli esponenti della corrente “cossuttiana” accusati di avere ricevuto soldi dai paesi dell’est.. Era un attacco finalizzato a stroncare sul nascere il Movimento per la rifondazione comunista e la stessa Rifondazione. Proveniva dall’esterno, ma trovò posizioni tiepide in settori ed esponenti di primo piano della nuova formazione che, come detto, ritenevano necessario marginalizzare la componente più legata alla storia del PCI e al suo rapporto con l’Unione Sovietica. Cappelloni non negava naturalmente l’esistenza di finanziamenti dell’Urss al Pci, ma l’inquadrava, come era giusto, in un contesto storico diverso.

Egli riusciva a mantenere un atteggiamento sereno (e un aspetto sorridente) anche nelle fasi più critiche. Ricordo che una volta ruppe il riserbo che gli era proprio, specie su queste vicende, raccontando ad alcuni di noi di come i soldi provenienti da Mosca (anzi, in realtà da Praga, su ordine di Mosca) venissero “ritirati” da lui ( o dall’Amministratore di turno), alla Città del Vaticano in forma di danaro “liquido”, contenuto in una borsa. Della consegna naturalmente non rimaneva traccia e il rappresentante del PCI avrebbe potuto tranquillamente appropriarsi dei soldi e usarli, in tutto o in parte, a titolo personale. Così, diceva, funzionava all’epoca quella che veniva chiamata la “solidarietà internazionalista”. Il più forte aiutava il più debole.
A sostegno di questa tesi raccontava anche come egli, nelle vesti di Amministratore del PCI, avesse pagato l’affitto della sede dell’ambasciata del Vietnam in Italia, al centro di Roma, in piazza Barberini, al costo di 3 milioni e mezzo al mese, perché quel povero paese, martoriato dalle bombe americane, non se lo poteva permettere.
Credo che queste vicende abbiano avuto un peso nella storia di Rifondazione comunista per, la dico così, “mantenere intorno alla figura di Guido una sorta di riserva di fondo” e negargli i riconoscimenti che avrebbe meritato o più riconoscimenti di quelli che ha avuto.

E credo che questo non sia giusto!: perché sull’operato di Cossutta, di Guido, della corrente cosiddetta cossuttiana o “filosovietica”, è possibile, anzi forse giusto, avere opinioni diverse, critiche o molto critiche, che sarà poi in definitiva la storia a giudicare, ma una cosa è certa: senza di loro non ci sarebbe stata Rifondazione comunista!; e perché (sono sempre nell’ambito delle mie opinioni) innovare è giusto e necessario, ma non provando vergogna, nascondendo o recidendo le radici del proprio passato!
Complessa e amara è la vicenda che, pochi mesi più tardi, porta allo scontro e poi alla rottura tra Giudo Cappelloni e Armando Cossutta, che un grande peso avrà nella storia successiva di Rifondazione. Il conflitto trae origine dalla designazione e dalla successiva elezione di Fausto Bertinotti alla Segreteria del Partito. La ferita di allora non sarà mai rimarginata e le vicende successive, alcune anche di incomprensione personale, la resero irrimediabile e definitiva. Cappelloni fu l’unico del gruppo dirigente ristretto della corrente (che allora era retta da una sorta di quadrunvirato composto da Cossutta, Guido, Diliberto e il sottoscritto) a manifestare il suo dissenso rispetto alla candidatura Bertinotti, contro la quale, i protagonisti di allora ricorderanno, organizzò una vera e propria rivolta della corrente contro il suo leader. Cappelloni, che ebbe con se la grande maggioranza dei dirigenti nazionali e regionali cossuttiani, trovò un alleato di peso nella Federazione romana di Rifondazione, all’epoca diretta dall’ex berlingueriano Francesco Speranza.

Le obiezioni di Cappelloni e dei “dissidenti” avevano naturalmente un carattere non personale, ma politico, sintetizzate nella battuta, per la verità ironica più che cattiva, che Bertinotti si sarebbe “iscritto direttamente alla Segreteria”: espressione in un certo senso lusinghiera, perché riprendeva quella da altri usata in altra epoca nei confronti della elezione di Berlinguer al vertice del PCI; cioè sostenevano che Fausto era, fino ad allora, estraneo alla storia, al corpo e all’esperienza di Rifondazione comunista e che la sua elezione avrebbe seguito i metodi verticistici di imposizione dei dirigenti dell’ultimo PCI, metodi il cui rifiuto avrebbe dovuto essere per Rifondazione un fatto costitutivo. A ciò si sommava una diffidenza di fondo verso la cultura, ritenuta ingraiana, del segretario in pectore. Cappelloni e il suo gruppo sostenevano, in alternativa, la candidatura di Antonino Cuffaro, ex berlingueriano e già figura di spicco della Direzione del Partito.

La situazione era in realtà complessa perché in ballo c’era anche la candidatura di Ersilia Salvato, cui qualche mese prima era stata sbarrata la strada alla assunzione dell’incarico di Coordinatrice del partito, proposto per lei dallo stesso Cossutta. Costui dovette ricorrere a tutta la sua sapienza politica e giocare tutto il suo carisma per sedare l’ammutinamento della corrente. Contattò a uno a uno tutti i maggiori dirigenti che facevano a lui riferimento (la vicenda è passata alla storia come quella delle “quaranta telefonate”) per convincerli delle sue ragioni. A proposito della “estraneità” Cossutta rispondeva con una espressione curiosa che mi è rimasta impressa, “Bertinotti non viene dalla luna”, intendendo come quest’ultimo, pur non militando ancora in Rifondazione, in realtà già idealmente lo facesse, come protagonista e dirigente di importanti movimenti sociali e di lavoratori. Inoltre Cossutta, al quale va riconosciuto senza dubbio il merito di aver sempre rifiutato l’idea di poter diventare Segretario egli stesso, sosteneva – e questo era l’argomento principe – che la candidatura Bertinotti gli avrebbe consentito di “stoppare” quella di Lucio Magri (o di un suo uomo, verosimilmente Crucianelli) che riteneva “pericolosa”, per l’esperienza e l’intelligenza politica di Magri stesso. Alla fine Cappelloni si piegò, credo responsabilmente, ad un compromesso, con tanto, mi pare, di accordo scritto che prevedeva la elezione di Bertinotti a Segretario e quella, se non ricordo male, di un Coordinatore della Segreteria individuato nella persona di Cuffaro.

Personalmente, a posteriori, per quanto riguarda il merito della questione, ho sempre pensato che l’elezione di Cuffaro, per quanto grandi siano l’affetto e la stima che gli porto, non avrebbe avuto i caratteri innovativi e dinamici di cui Rifondazione aveva bisogno e che poté avere la figura di Bertinotti.
Credo che la rottura con Cossutta, politicamente negativa per tutta Rifondazione, sia stata, anche se non lo dava a vedere, umanamente sofferta per Cappelloni che, nella prefazione al libro di Sandro Valentini, scrive “conosco e ho collaborato con Cossutta per oltre trenta anni, anche in periodi e frangenti molto impegnativi, ma non mi sono mai sentito suo amico: collaboratore, alleato, ma niente più”.

Guido aveva una grande umanità. Ho spesso pensato a lui come a un padre. Non è facile trovare nei politici, in noi politici, un certo livello di sentimento: passione sì, ma il sentimento è merce più rara.
Concludo con l’idea di non avere mai visto Guido Cappelloni arrabbiato, pur avendo avuto con lui motivi di discussione o avere assistito alle sue discussioni con altri. Aveva una sorta di serenità di fondo o io, almeno l’ho conosciuto così.

Mi rimane in mente lo sguardo aperto e la faccia sorridente che gli ho rivisto addosso poco tempo fa al Congresso del suo partito e che, evidentemente, ha conservato fino all’ultimo. Lo ricordo, anche da questa sede, con tanto affetto.
   

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