di Franco Calistri

PERUGIA - Annunciata come riforma “epocale” in grado di rilanciare l'occupazione, spingere all'efficienza, ridare competitività al sistema Italia, alla prova dei fatti, o meglio alla prova degli atti gli interventi sul mercato del lavoro proposti nel disegno di legge varato dal governo Monti, se si esclude la grave e pesante manomissione dell'articolo 18, si sta rivelando una vera e propria “bufala”. A parole si è fatto intendere chissà quali cambiamenti ma nella realtà sono cambiati i nomi, le sigle, ma la sostanza continua ad essere quella di sempre, con qualche aggravante in termini di tutele, manco a farlo apposta, dei lavoratori.

Prendiamo ad esempio la questione del riordino degli ammortizzatori sociali, che doveva costituire l'elemento cardine di tutta la riforma. A dire il vero la riforma doveva incentrarsi proprio su questo, e non sull'articolo 18. Ebbene va in pensione la vecchia indennità di disoccupazione, scompare l'indennità di mobilità e nasce l'ASPI (Assicurazione sociale per l'impiego) uno strumento definito dal governo di “carattere universalistico”. Ci si aspetterebbe una sua applicazione a favore di tutti i lavoratori che perdono il lavoro. Niente affatto. La platea dei potenziali beneficiari della misura rimane quella prevista con la vecchia indennità di disoccupazione, c'è solo un allargamento agli apprendisti e artisti dipendenti, meno di 300.000 persone in tutta Italia. Restano fuori tutte le forme di lavoro precario. Non solo, ma identici rimangono anche i requisiti previsti per l'attuale indennità, ovvero anzianità assicurativa di almeno 2 anni e 52 settimane di contribuzione. Pressoché invariato resta anche l'importo, 1.119,32 euro mensili lordi (prima erano 1.073,25 euro) che al netto di tasse e balzelli si riducono a poco più di 800 euro mensili, che si riducono a poco più di 680 euro dopo 6 mesi e, se il disoccupato ha più di 55 anni e quindi ha diritto a 18 mesi di indennità (per gli altri l'indennità viene erogata per solo 12 mesi), scende per i restanti sei mesi di un ulteriore 15%, 580 euro circa. Intanto per gli over 55 si cancella l'indennità di mobilità, ovvero quella misura che in questi anni ha permesso di accompagnare i lavoratori ”anziani” difficilmente reimpiegabili, verso la pensione, oggi diventata un traguardo irraggiungibile. Va inoltre tenuto presente che restano in piedi tutta un'altra serie di forme di ammortizzatori sociali, come l'indennità speciali in agricoltura ed edilizia o per altre categorie, che (e per fortuna, si dirà) non vengono toccati, alla faccia della riforma e dela volontà di costruire uno strumento unico ed universale.

Ancora. Si sbandiera la volontà di fare del contratto a tempo indeterminato la modalità principe di assunzione e per questo si rende più costoso il ricorso al tempo determinato e a tutte quelle innumerevoli forme di flessibilità introdotte dal governo Berlusconi (legge Biagi) e che questo governo si guarda bene di abolire, sia chiaro. L'intenzione è buona, peccato che in assenza di un salario minimo, sarà abbastanza facile per i datori di lavoro traslare i nuovi oneri sui lavoratori, pagando salari più bassi. Per usare un'espressione oxfordiana i lavoratori flessibili si ritroveranno cornuti e mazziati.

E per favorire l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro? Niente paura, la fervida mente del ministro Fornero individua come “trampolino di lancio” niente popo di meno che.... l'apprendistato. Si proprio lui, il vecchio e caro apprendistato che viene riproposto nella versione rimaneggiata dal ministro Sacconi, con due “aggravanti”: il rapporto lavoratori qualificati presenti in azienda/apprendisti passa dagli attuali 1 a 1, a 2 a 3, ovvero la possibilità per l'impresa di assumere tre apprendisti ogni 2 lavoratori qualificati e viene consentito alle aziende di autocertificare la formazione erogata all'apprendista. Insomma me la sono e me la canto.

E questa sarebbe una riforma epocale, ministro Fornero... ma ci faccia il piacere.
 

Condividi