Luciano Canfora: dalla Grecia alla Grecia
di Massimo Stella
Abbiamo incontrato Luciano Canfora a Torino, la città che egli definisce “la vera capitale d’Italia”. Il suo ultimo libro, Il mondo di Atene, Laterza, è un vasto affresco sulla democrazia antica che giunge in tempi di grave crisi dei sistemi democratici contemporanei e riattiva la memoria storica del lettore intorno a temi e problemi del nostro mondo, dalla crisi della rappresentanza, al tramonto della concertazione politica, al neoimperialismo del villaggio globale.
Partiamo dalla Grecia di oggi. Dal dopoguerra, in Occidente, consideravano naturale che stato, istituzioni e democrazia costituissero un trinomio solidale. Ma, se guardiamo quanto avviene oggi in Europa, e in Grecia soprattutto, può venirci il lecito sospetto che stato e istituzioni tornino ad essere macchina dispotica di una classe dominante. Dobbiamo recuperare, per fare un esempio, l’analisi di Lenin in Stato e rivoluzione?
Il caso Grecia è un caso limite dei processi economici e dei movimenti istituzionale dall’alto verso il basso che coinvolgono ormai l’intera area euroatlantica, perché di tali processi a Grecia è anche vittima. Ciò che accede oggi in Grecia – paese molto più di confine dell’l’Italia - risale sicuramente alla posizione geopolitica che essa ha avuto nel confronto tra Est ed Ovest dal 1945 al 1991. La guerra civile greca fu un episodio tragico: l’abbandono dei partigiani a se stessi, la brutale tutela sulla sovranità greca, la messa al bando di una serie di formazioni politiche, e poi, dopo la parentesi democratica del patriarca Papandreou, i Colonnelli, diretta emanazione dei servizi americani, in un momento di un momento di conflitto totale tra Ovest e Est dell’Europa. Oggi la Grecia è un paese massacrato, con una casta ricca totalmente svincolata dalla popolazione e dal territorio, il che rende la situazione ancor più umiliante e il dramma del povero Papademos è quello di essere sempre prono e tuttavia di deludere sempre i suoi mandanti.
E quanto alla lettura leninista dello stato padrone?
Io non sarei così vicino nel tempo. Ci sono due testi, antipodici, più lontani cronologicamente: tra il 1819 e il 1848 ci sono Benjamin Constant e Karl Marx. I due dicono, sul punto che ora ci interessa, sostanzialmente la stessa cosa: ad alcuni piace ad altri dà disagio. Constant dice: la ricchezza è più forte del governo, il governo si deve inchinare, la ricchezza alla fine si nasconde e vince. Marx dice: i governi sono il comitato d’affari del capitale. Poi uno si schiera come gli pare.
Nel suo libro appena uscito, la democrazia ateniese risulta essere il prodotto di “una grande élite che accetta di governare un popolo bigotto e oscurantista”. Si tratta forse di un principio strutturale che genera il sorgere dei grandi sistemi democratici occidentali?
E’ strutturale. Certo, può sembrare controcorrente dirlo per chi sostenga una versione deamicisiano-democraticistica, o se vogliamo anche mazziniana, risorgimentale, “quando il popolo si desta Dio si mette alla sua testa ….”. il culto del popolo come tale, di per sé portatore sano di valori, è una generosa, simpatica ingenuità, perché non esistono portatori di valori innati, se non nella fantasia o nei mistici. Il popolo ha bisogno di un contrasto, di un élite dirigente – parola antipatica, diciamolo pure – che si ponga in termini di educazione politica. Nessuno perbenismo politico ci deve impedire di comprendere questo e comprenderlo sdrammatizza il dramma caratteristico di ogni formazione di sinistra, cioè disperarsi perché non ottiene la maggioranza. La maggioranza non è data dal padreterno: si conquista attraverso la pedagogia politica, ormai da lungo tempo dismessa. Il demo ateniese, nel piccolissimo della società di V e IV secolo, è al tempo stesso egemonico rispetto ai sudditi finché può e incline a sfruttare coloro che ritiene subalterni: il popolo della Lega, oggi, ritiene che gli immigrati siano o dei potenziali schiavi o degli sfruttatori – quindi ha lo stesso atteggiamento ostile e repulsivo, perché disabituato a frequentare un’educazione di tipo progressivo. Ed è un popolo bigotto nel senso che è vittima di pregiudizi di carattere religioso – come quando un noto capo democratico propone di chiudere le scuole di filosofia per andare incontro alla base, e in una situazione molto simile si trovò anche il clan pericleo di Anassagora rispetto all’ateniese medio democratico.
Un aristocratico inglese di antichissima famiglia, Lord Romney, commentò in questo modo, nel 2008, la perdita del proprio posto ereditario alla Camera dei Lords, in seguito alla riforma già avviata da Blair: non ci vuole democrazia, ma “magnanimità e dirigenza di chi è ben educato”, perché la democrazia è “un trucco per consultare tutti e fare ciò che nessuno vuole”. Sembra di sentir parlare il Vecchio Oligarca della Costituzione degli Ateniesi. Secondo lei è auspicabile oggi il governo di un élite “magnanima e ben educata”?
Mi piace quest’episodio evocato che si riannoda ad altri tasselli, uno dei quali è la parola stessa democrazia, controversa in se stessa e malvista in Inghilterra fino agli inizi del Novecento. La reazione di fronte al fenomeno democratico può essere di due tipi: uno è comprenderne la dinamica e indirizzarla verso gli obiettivi dell’uguaglianza sociale; l’altro e opposto, è quello che accomuna il Vecchio Oligarca, gli artefici del colpo di stato del 411 a. C. ad Atene e Lord Romney: i quali, tutti, sanno benissimo mettere in luce i difetti del potere popolare in virtù di un cinico sofisma: poiché siete una belva incondita, allora il potere passi a noi perché siamo gli unici a potervi educare. Costoro vogliono trascurare che il potere popolare può essere indirizzato in un senso piuttosto che in un altro a seconda della cosciente avanguardia politica che lo guida. Antifonte, nel suo scritto Sulla verità, colpisce al cuore l’antiegualitarismo sostanziale dei democratici liberi cittadini primo iure e, però, come rimedio, propone il restringimento del corpo civico ai ben educati. Ecco perché bisogna guardare il fenomeno popolo-governante con due ottiche completamente diverse
Lei cita più di una volta la definizione che Max Weber dà della democrazia antica come d’una “gilda politica che si spartisce il bottino”. Possiamo dirlo anche delle democrazie postmoderne e del nuovo imperialismo globale, sia delle sue élites che dei suoi “popoli”?
Io sono sostenitore dell’analogia come forma a priori del conoscere storico, ma occorre precisare alcune specificità. L’esempio del “vero ateniese” di V a.C. ha delle grandi potenzialità diagnostiche, a più uscite. Da un lato ci fa pensare al meccanismo di esportazione del modello in prospettiva giacobina, poi bipartisan, ovvero all’imposizione di modelli di tipo collettivistico-sovietico, dopo il ’45: paesi fratelli, ma in realtà chi diserta viene schiacciato, proprio come accade a Samo quando si ribella all’egemonia ateniese, e allora Pericle porta dieci strateghi, una flotta immensa e la schiaccia. Ma l’impero ateniese si può leggere anche da un’altra ottica analoga che ci porta sul versante opposto. Ad esempio, il fenomeno del gingoismo: il sindacalismo americano, nazionalistico, patriottico, egoistico al massimo, che in nome del benessere d’una parte cospicua della classe operaia americana, era intimamente imperialistico, e riteneva, ad esempio, cosa sacrosanta l’America del Sud come cortile di casa. Il demo ateniese che “si spartisce il bottino” è la stessa cosa, perché compartecipa del vantaggio dell’impero.
Fonte: Alias, inserto de Il Manifesto dell'11 marzo 2012




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