Approvato da una maggioranza parlamentare mai vista, osannato da un sistema informativo a senso unico degno di un regime totalitario, accolto con rassegnazione e scettica fiducia da un pubblico bombardato da anni (e a dispetto della realtà) con dosi crescenti di ideologia liberista, sta per diventare legge il decreto Monti sulle liberalizzazioni.

Tra le altre, ne contiene una, sicuramente la più importante dal punto di vista degli interessi economici strategici del Paese, che è esemplificativa nel suo genere: quella del gas. In realtà non si tratta di una liberalizzazione poiché il mercato del gas è formalmente e sostanzialmente liberalizzato già dal 2003; con la nuova norma si decide di dare corso entro sei mesi, alla separazione proprietaria di Eni da Snam. Si vuole, in sostanza ulteriormente ridimensionare (mi verrebbe detto “finire di demolire”) quella che è stata (ed, in parte, è ancora) una grande impresa controllata dallo Stato, per far posto ai privati.

Nella holding attuale l’ENI, che è per così dire la casa madre, si occupa della ricerca e dell’acquisto del gas, mentre Snam cura la progettazione, la realizzazione e la gestione degli impianti di trasporto e stoccaggio di cui è anche proprietaria. Si dice che lo scorporo di Snam sarebbe necessario per garantire la terzietà e l’indipendenza del proprietario e del gestore dei gasdotti e degli impianti di stoccaggio che riforniscono i venditori finali (imprese private, miste o quelle che sono “per ora” aziende municipalizzate) e per consentire a questa società scorporata di “speculare” sul prezzo del gas (grandi acquisti quando costa meno e stoccaggio, per poi rivenderlo) con conseguente beneficio di riduzione delle tariffe per gli utenti.

Ma, se così fosse (la domanda , come si dice, viene spontanea!), perché questo non può farlo Eni stessa?; e perché non si procede, come auspicato da molti economisti, non ad una separazione societaria, ma ad una più semplice e meno costosa divisione “funzionale”, che, tra l’altro, sarebbe in linea anche con una recente Direttiva della Unione Europea?! Non si può non coltivare il sospetto che, in realtà, dietro lo scorporo attuale ci sia la volontà di vendere (svendere?) per pezzi (dopo quello elettrico anche lo “spezzatino” del gas) la nuova società ad acquirenti privati. In ogni caso c’è il rischio evidente che questa società (anche ove non fosse smembrata) diventi una impresa di investimenti finanziari e speculativi, piuttosto che produttivi, disinteressata quindi alla manutenzione e allo sviluppo materiale della rete di trasporto in Italia e all’estero (vitale per il nostro Paese, per le zone marginali e per ridurre i costi per l’utenza), quanto invece interessata alle altalene del mercato del gas.

Un Paese, come Italia, grande importatore di gas naturale come di altre materie prime, avrebbe bisogno estremo di una grande impresa in grado di integrare costi e funzioni, realizzare economie di scala, sostenere la ricerca di fonti energetiche in senso scientifico e “fisico” e dotata di massa critica e forza contrattuale nel rapporto con i concorrenti e i Paesi produttori. Non a caso altri grandi Paesi europei difendono e sostengono nei settori strategici i cosiddetti “campioni” nazionali (un esempio per tutti l’Edf francese che ha già comprato due imprese italiane, Edison ed Edipower) In Italia si procede in direzione esattamente opposta, e lo si fa, tra l’altro, con un concetto e una pratica tutta italiana delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. Esse, infatti, in generale, sono richieste e accolte dalle imprese non nelle parti, per così dire, alte e difficili , ma in quelle basse e banali della funzione.

Anche nel caso del gas, infatti, il “mercato” e la concorrenza si creano nel comparto “distribuzione” e vendita finale, che è, guarda caso, la parte più redditizia del sistema e più esente da rischi e dai costi che presenta l’attività di ricerca e approvvigionamento. Così è stato nel campo elettrico (i privati riscuotono le bollette, chi costruisce nuove centrali?, chi cerca fonti alternative?) e nel campo dei trasporti (si prende la lucrosa “alta velocità”, i treni pendolari e gli altri li tenga lo stato!) e in altri settori.

In questo modo l’Italia continua consapevolmente a decidere di uscire dal novero dei grandi Paesi. Questi allignano strutture industriali solide e potenti, animali robusti, l’Italia si affaccia con tante “formichine” in lite tra loro per spartirsi i guadagni del giorno per giorno, guadagni tra l’altro condizionati dalle scelte dei Paesi e delle imprese più forti.

La debolezza dell’Italia (quella che Monti e la Confindustria chiamano il “deficit competitivo”) viene da questo, non dall’art. 18.

Leonardo Caponi

Ps. Il governo Monti e la maggior parte dei media hanno promesso, con le liberalizzazioni, mirabolanti cifre di crescita dell’economia e dell’occupazione. Ora a tutto si può credere, ma a questo proprio no!
La sfera di intervento di cosiddetto decreto “cresci Italia” riguarda infatti, quasi totalmente, il comparto dei “servizi”; ben poco, quasi nulla, interviene nel campo della produzione materiale dei beni. Quindi le misure del governo, se avranno effetto (???), lo avranno nel senso di favorire una maggiore dinamicità nel trasferimento della ricchezza che già esiste, non in quello che crearne di nuova. A meno che non si pensi (e probabilmente questa è la verità) ad una ripresa imperniata sullo sviluppo della ben nota ”economia di carta” ed alla creazione di una domanda artificiosa di consumi. Si, si proprio quella che ha fatto “boom” in America e che ha provocato la crisi attuale!.
 

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