di Giampaolo Ceci

PERUGIA - In un’economia di mercato la concorrenza produce effetti calmieratori utili per il buon funzionamento dell’intero sistema; infatti, se un bene venisse prodotto in regime di monopolio il prezzo non avrebbe relazione coi costi per produrlo e potrebbe essere venduto anche con elevati margini di profitto.
Se invece il mercato è libero questa relazione cadrebbe e la concorrenza genererebbe una gara al minor prezzo che si fermerebbe solo quando questo non produce margini convenienti.

In questa spietata gara al ribasso i più bravi sopravvivono, gli altri cambiano mestiere o s’inventeranno altri beni da produrre, generando innovazione e progresso.
La concorrenza però non è sempre un bene, perché se applicassimo lo stesso principio al lavoro operaio, otterremmo che la parte forte (chi offre lavoro) si troverebbe di fronte ad una miriade di persone disposte a offrirglielo.

In questo caso la concorrenza tra i “poveracci” si arresterebbe a quello che ha più bisogno di tutti e che, per sopravvivere, sarebbe disposto a “vendersi” a prezzo di mera sopravvivenza.
La concorrenza quindi, in un’economia di mercato, svolge una funzione utile per calmierare i beni e i servizi, ma va presa con dei limiti quando si tratta di remunerare gli esseri umani.
Quando si tratta di remunerare il lavoro, la concorrenza non dovrebbe superare il limite oltre il quale si tratta di sfruttamento.
La misura delle remunerazioni minime che voglia mantenere ferma la dignità dei lavoratori deve essere responsabilmente concordata tra le parti imprenditoriali e le rappresentanze dei lavoratori, nonché garantita dallo Stato.
Nessuno, neppure i “padroni” contestano questi principi, a condizione però che valgano per tutti, in quanto altrimenti si lederebbero i principi della leale concorrenza.
Oggi si parla di liberalizzare il mercato delle professioni e il governo Monti vuole abolire i minimi tariffari per “aprire alla concorrenza”.

In questo caso si fa un’eccezione e per i liberi professionisti il principio non vale.
Solo per i liberi professionisti il mercato è libero ed è consentito farsi concorrenza senza regole.
Lavorerà solo chi si offre a meno, proprio come avrebbe voluto il padrone se i sindacati glielo avessero permesso.
I lavoratori, quando diventano datori di lavoro, si comportano come non vogliono che facciano i padroni nei loro confronti!
Non ci si rende conto che, tra l’indifferenza dei sindacati, si lede pericolosamente un principio fondamentale per i lavoratori, ovvero quello di non essere sfruttati dalla parte forte, che in questo caso è invertita perché è costituita dai lavoratori.
Mi sarei atteso che il Governo tecnico provasse a razionalizzare i criteri per svolgere le libere professioni che in alcuni casi risale al fascismo.

Se la materia era troppo vasta avrebbe potuto limitarsi a razionalizzare i criteri di calcolo dei minimi tariffari delle prestazioni intellettuali per consentire a tutti (giovani e vecchi, ricchi e poveri) di operare in un regime di concorrenza regolamentata come avviene per tutti gli altri lavoratori, garantendo però anche a questi lavoratori senza padrone, una soglia minima sindacale dignitosa. Invece no!
I liberi professionisti sono lavoratori di serie B. Loro per sopravvivere possono anche lavorare sottocosto!
A chi gioveranno queste misure? Come si assesterà il mercato delle libere professioni dopo questi provvedimenti? Come verranno scelti i professionisti negli appalti pubblici? In assenza di misure che razionalizzassero tutta la materia, non era più semplice ridurre i limiti minimi tariffari, qualora fossero troppo alti, senza abolirli del tutto?
Ma soprattutto, che bisogno c’era di attivare queste misure che creano tensioni sociali, prima di quelle molto più urgenti necessarie a incrementare la crescita?
 

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