Ma cos'è il "lavoro"? Riflessioni sul tema
di Giampaolo Ceci
PERUGIA - Cosa vuole dire “lavoro”? Quali la differenza tra “lavoro” hobby o attività del volontariato?
Una cosa é certa “lavoro” è sinonimo di attività che produce una “utilità”, intesa in senso lato.
Si produce “utilità” quando si soddisfa un bisogno, ovvero quando qualcuno sarebbe disposto a pagare un corrispettivo per fruirne.
Il condannato ai lavori forzati che deve spostare delle pietre avanti e indietro da un luogo ad un altro, non produce utilità quindi fa “fatica”, ma non fa un “lavoro”. Infatti, nessuno comprerebbe quest’attività inutile.
Anche chi realizza il modellino di un veliero, se lo fa solo per gratificare la propria autostima, non fa un “lavoro”, anche se in questo caso, ciò che realizza ha anche un “valore”.
Caso ancora diverso è quello del volontario che certamente produce attività utili che soddisfano bisogni, ma che non sono motivate dal desiderio di riceverne un corrispettivo.
Il “lavoro” quindi ha insiti due concetti: quello di produzione di utilità e quello di “valore”.
Dopo tutto questa premessa possiamo ora tentare di dare una prima definizione di “lavoro” che, a prescindere dagli elementi psicologici legati all’autostima, mi pare possa essere questa: Il “lavoro” è un’attività umana che produce una “utilità” finalizzata ad ottenere un corrispettivo economico.
Secondo questa definizione, se manca l’utilità o il corrispettivo economico, non siamo in presenza di un “lavoro”.
Il “lavoro”, in questa accezione, quindi sembrerebbe una “merce” come un’altra e come per ogni altra “merce” soggiace alle leggi di mercato che, in una società organizzata secondo i principi liberali, sono quelli della domanda e dell’offerta.
Nella metà dello scorso secolo in occidente, sulla spinta delle forze sindacali si è riusciti, con grandi fatica, a ottenere delle conquiste per i lavoratori più deboli, finalizzate ad evitare che la parte forte (datoriale) potesse approfittare della sua posizione di vantaggio verso chi era in stato di necessità e non aveva conoscenze, capitali o indoli imprenditoriali.
Bisogna ricordare che ci sono stati anche casi paradossali in cui la parte forte invece erano i lavoratori.
In Svizzera, ad esempio, negli anni 70, quando l’immigrazione era fortemente osteggiata dal governo, per la scarsità di mano d’opera locale disposta a eseguire i lavori più umili, si é assistito a dipendenti che erano blanditi con ogni mezzo dai loro datori di lavoro perché non si licenziassero per andare da chi offriva loro condizioni anche di poco migliori.
In Italia, accade uno strano fenomeno. Permangono, infatti, tra l’indifferenza di molti, evidenti ingiustizie tra i lavoratori dei diversi settori produttivi.
Ricordo solo il diverso rischio di licenziamento che incombe sui lavoratori pubblici rispetto a quelli privati, o il diverso trattamento tra gli artigiani, liberi professionisti e commercianti nei confronti dei lavoratori dipendenti o peggio tra i lavoratori assunti in imprese con più o meno di 15 dipendenti che godono di immotivati privilegi.
In questi casi il sindacato ha la responsabilità di non aver portato mai avanti le battaglie ugualitarie che sono nella sua tradizione, come se i lavoratori fossero di due categorie: i loro iscritti egli altri.
Ma, la questione più trascurata, su cui non si riflette ancora abbastanza, è il ruolo dell’imprenditore che viene spesso descritto come un famelico sfruttatore senza scrupoli alla stregua del vecchio padrone delle ferriere.
Qui la nuova sinistra deve fare uno sforzo culturale e uscire dai vecchi stereotipi massimalisti e fare i dovuti distinguo. Pur restando dalla parte dei più deboli nella trattativa, bisogna rendersi conto che le sorti degli operai sono legati indissolubilmente a quelle delle aziende in cui lavorano. Il rapporto con i “padroni” deve uscire dallo scontro per entrare in un’ottica più matura di confronto e collaborazione.
C’è spazio per sperimentare forme nuove di retribuzione che superino il vecchio salario per provare ad esempio la compartecipazione agli utili o alla distribuzione di gratifiche sotto forma di azioni dell' azienda in cui si lavora.
La nuova sinistra deve discutere come garantire che le regole siano eque e garantiste non solo per i lavoratori, ma ANCHE per gli imprenditori.
Bisogna rendersi conto che per avere più lavoro non bisogna considerare chi intraprende alla stregua di un delinquente, ma riconoscergli addirittura un’adeguata gratificazione economica e anche il sostegno da parte dei dipendenti quando l'impresa è in pericolo.
Per l’imprenditore grande o artigiano che sia, non c’è, infatti, alcuna cassa integrazione, spesso, se gli va male, perde tutto anche la casa, tra l’indifferenza di tutti!
Questo però non significa che gli imprenditori possano fare ciò che vogliono, ma solo che, bisogna riconoscere che, come ci sono regole a tutela dei lavoratori, devono essercene altrettante a tutela degli imprenditori. So che per qualcuno dico una bestemmia, ma non voglio banalizzare, so bene che la linea di demarcazione non è facile soprattutto per un uomo di sinistra.
A mio modo di vedere, però sarebbe già molto se le parti iniziassero le trattative sindacali avendo ben presente che l’interesse da salvaguardare non è quello dei lavoratori e neppure quello dell’imprenditore ma PRINCIPALMENTE quello dell’azienda da cui entrambi traggono i loro guadagni.
Se è vero che il gruppo vale più del singolo, anche le misure più gravi per i lavoratori trovano una giustificazione su cui vale la pena riflettere senza pregiudizi.

Tuesday
03/01/12
14:52
Gli effetti negativi sul lavoro che, purtroppo, non possono che inasprire la forbice e il conflitto sociale, sono la punta dell'iceberg di un sistema economico insostenibile per l'Italia. Qualsiasi soluzione sui contratti di lavoro, sara' sempre inadeguata rispetto alla crisi sistemica del paese. Un recente studio ha dimostrato che siamo il paese, in Europa, dove e' maggiormente incisivo per trovare lavoro il livello socio - economico della famiglia. Alias la mobilita' sociale e' scarsa e se non hai il babbo 'introdotto', rimani al palo. Ma questi e altri dati negativi non debbono essere un alibi, per piangersi addosso. I sindacati devono farsi parte attiva, insieme al governo e agli attori economici, per proporre un reale 'riposizionamento' economico per l'Italia. Altrimenti, il problema del lavoro verra' risolto alla radice, con la disoccupazione ... Le regioni, ad esempio, potrebbero avviare un dibattito reale e concreto, sulle strategie di riposozionamento, per creare lavoro. Anche perche' se non si crea lavoro, se non si distribuisce reddito, l'economia intetna non ripartira' per anni e anni.