Cacciare Berlusconi, ma per cambiare rotta
di Bruno Steri
Comprensibilmente, cresce il clamore mediatico suscitato dall’estenuante agonia politica berlusconiana, ancor più enfatizzato dai responsi delle agenzie di rating sulla vacillante capacità di tenuta dell’ “azienda Italia”. Ed è assolutamente prioritaria l’esigenza di sottrarre il Paese alle scelte di un governo sciagurato e consegnarlo senza indugi al responso degli elettori. Ciò detto, onde evitare che nel clamore generale si perdano i dettagli, occorre sin d’ora chiarire bene la strada che si vuol intraprendere per uscire dal pantano in cui le politiche neoliberiste hanno fatto precipitare le classi subalterne e, con esse, in misura crescente lo stesso ceto medio. E’ evidente che il suddetto interrogativo pesa innanzitutto sul capo delle sinistre. Non a caso, nell’utile intervista comparsa ieri su questo giornale, Alfonso Gianni precisa che, per quel che riguarda il centrosinistra, «la risposta è più complicata» in quanto «per ora le posizioni sono alquanto distanti», ancorchè suscettibili di «sintesi più avanzate». In ogni caso, è essenziale uscire dagli equivoci.
Tutti quelli che criticano l’operato del governo lamentano l’assenza di concrete «misure per la crescita»: già, ma cosa si intende con «misure per la crescita»? In effetti, cosa intendano i maîtres à penser del versante moderato è del tutto chiaro. Lo fa comprendere, ad esempio, il direttore di Liberazione quando - sempre ieri - ribadisce l’urgenza di una tassa patrimoniale sulle ricchezze dei più ricchi, fieramente contrastata da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Cosa intendano dunque con «misure per la crescita» i due editorialisti del Corriere - se non appunto pescare le risorse là dove sono in abbondanza e riavviare i consumi della maggioranza dando ossigeno alla domanda solvibile - è presto detto: basta andare sul sito web Vox-eu per averne ulteriore conferma. Si tratterebbe innanzitutto di non procedere con «aumenti delle tasse» quanto piuttosto con «tagli alla spesa» (con linguaggio sibillino, definiti «interventi strutturali»). In quest’ottica, «deregolamentazioni» e «privatizzazioni» diventerebbero in via prioritaria misure pro-crescita. Una strada maestra sarebbe insomma quella dell’articolo 8 della manovra, quella cioè dell’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro, attraverso una «norma che consente a datori di lavoro e lavoratori di firmare contratti aziendali in deroga ai contratti nazionali e, entro certi limiti, in deroga alle leggi sul lavoro».
Su questa via, altrettanto strutturale e quindi auspicabile risulterebbe la progressiva abolizione delle pensioni di anzianità (cui costantemente allude la presidente di Confindustria e non solo lei). Invero, che esponenti del pensiero economico dominante la pensino così, non fa notizia. E’ a sinistra che occorrerebbe urgentemente uscire dagli equivoci. Significativamente, i due suddetti economisti non mancano di ripetere che questo chiede l’Europa, a partire dalla assai poco misteriosa lettera di Trichet e Draghi. Ancora in questi giorni, leggiamo sul bollettino mensile della Banca centrale europea che per promuovere la flessibilità delle economie le «riforme del mercato del lavoro sono un elemento chiave», che occorre «promuovere la flessibilità salariale» e che a tal fine è necessario «rimuovere i meccanismi di indicizzazione automatica delle retribuzioni» (evidentemente, ove ancora sussistano) e «rafforzare gli accordi a livello di impresa, in modo da adeguare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle imprese». La ricetta delle tecnocrazie di questa Europa non potrebbe essere più chiara: pareggio dei conti e rientro dai debiti pubblici attraverso compressione ulteriore di redditi e diritti.
Da tempo ripetiamo che simili politiche, oltre che essere profondamente inique, sono altresì drammaticamente fallimentari: recidono in radice la possibilità della tanto proclamata crescita, rendono per molti sempre più insostenibile il regime di appartenenza all’euro ponendo a serio rischio di esistenza la stessa compagine europea (sul cui territorio le stime più caute censiscono 50 miliardi di disoccupati). Ammonendo che «il peggio può arrivare», Valentino Parlato ha ricordato che, «per esperienza e memoria», quando si intrecciano crisi politica e crisi economica «la deriva di destra è inevitabile» (in proposito, si confrontino i più recenti dati elettorali in più di un Paese del continente).
Su Il Manifesto del 21 settembre è comparso un interessante contributo di John Palmer, della rete di economisti europei (socialisti e verdi) Euromemorandum, in cui tra l’altro si esplicita un insieme di proposte per far fronte alla crisi. Non è inutile ripeterle qui rapidamente: verifica democratica delle scelte della Bce, controlli severi sulle banche, divieto delle transazioni fuori bilancio, tassa sulle transazioni finanziarie, chiusura dei paradisi fiscali; sul piano macroeconomico, sostituzione del Patto di stabilità e crescita con politiche di espansione della domanda in vista della piena occupazione, comunitarizzazione di una percentuale del debito di ciascun stato membro e tassa patrimoniale, piano di investimenti pubblici per occupazione mirata (in particolare, giovani), riduzione dell’orario di lavoro, armonizzazione delle aliquote fiscali europee, con un’aliquota minima per le persone fisiche e le aziende; oltre a ciò, un Piano europeo per lo sviluppo sostenibile, con diminuzione concertata in tutto il continente del consumo energetico, dei flussi di materiali, dei trasporti superflui.
Non sappiamo quanto un tale pacchetto di proposte sia condiviso dal contesto politico cui questo compagno dichiara di appartenere, né sappiamo quanto ad esempio il nostro Pd sarebbe disposto a cimentarsi con una simile prospettiva programmatica e quanto tutto questo abbia a che vedere con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio (direi nulla). Sappiamo tuttavia che questa sarebbe una buona strada per mantenere un’Europa che sia sociale e degna di questo nome. Altrimenti, si torna indietro.
Fonte: Liberazione del 22 settembre 2011

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