L'involuzione della politica a proposito della manovra
PERUGIA - In questi giorni assistiamo a un continuo evolversi (o meglio, involversi) della discussione “politica” a proposito della manovra che il governo si appresta a varare per rispondere alle forti pressioni della Banca centrale europea. A parte la perenne metamorfosi delle misure via via proposte e a parte il dilagare di un dibattito su conti, spread, pil, debito, ecc. cui partecipa una moltitudine di sedicenti o effettivi esperti e che ho l’impressione non aiuti molto la gente a capire, la realtà è che, se accordo nella maggioranza ci sarà, la crisi intendono farla pagare come sempre ai lavoratori, ai precari, ai giovani e ai pensionati.
Fin qui niente di nuovo. Ciò che, però, lascia sconcertati è il livello qualitativo delle proposte in campo e l’infima levatura dell’impianto generale della manovra. Al di là dell’intento di non intaccare minimamente i privilegi della cosiddetta “casta” e la totale invisibilità al fisco di svariate e redditizie attività imprenditoriali, finanziarie e speculative, unitamente alla ferrea volontà di disattendere l’esito referendario di giugno, di dilapidare il patrimonio pubblico, di demolire il welfare e di accanirsi su chi le tasse le paga da sempre, il governo non brilla quanto a creatività nel reperire risorse per raggiungere nell’arco di un biennio il tanto agognato e intimato pareggio di bilancio. Un’accozzaglia di provvedimenti dalla natura più disparata, per la maggior parte incostituzionali o passibili di ricorsi di massa, destinati a produrre una decrescita (non alla Latouche, però) e mirati a colpire, con tagli economici e cancellazione di diritti, sempre e comunque i soliti noti.
D’altronde, la cosiddetta sinistra parlamentare (sic!) non rappresenta un reale contraltare al governo di centro-destra. Tanto per fare un esempio, sia il PD che l’IDV propugnano con forza liberalizzazioni e privatizzazioni che, come l’esperienza ha dimostrato, nulla hanno a che vedere con servizi efficaci, efficienti e accessibili a tutti i cittadini.
Eppure per proporre una piattaforma alternativa al decreto del governo, senza voler scomodare la collettivizzazione dei mezzi di produzione e la creazione di soviet, basterebbe che ci si ispirasse anche solo vagamente al programma che Roosevelt presentò al suo elettorato nel 1932 e applicò (dire e fare è un abbinamento quasi impossibile ai giorni nostri) nel corso degli anni successivi per risollevare gli Stati Uniti dalla grande depressione. Il programma prevedeva un massiccio intervento dello Stato nell’economia: riassorbimento della disoccupazione tramite un imponente piano di lavori pubblici finanziati dallo Stato, aumento dei salari e riduzione dell’orario di lavoro, riconoscimento dei sindacati nelle aziende e obbligo per gli imprenditori di trattare con essi, controllo e gestione statale dell’energia elettrica, riorganizzazione del sistema bancario e controllo dello Stato sulle borse e sul mercato azionario, e così via. Mi si dirà che succedeva ottant’anni fa, ma sono convinta che l’approccio alla crisi fosse azzeccato.
Le risorse finanziarie per fare tutto ciò sarebbe bene prenderle là dove sono, è cioè tassando i grandi patrimoni, le rendite e le transazioni finanziarie, combattendo seriamente l’evasione fiscale, tagliando le spese militari e bloccando le grandi e inutili opere, favorendo le attività economiche tecnologicamente innovative e in un rapporto amichevole con ambiente e territorio, valorizzando i saperi, la scuola e le università. Ed è esattamente il contrario di ciò che intende fare il nostro governo.
Ora, di fronte a tale scempio del buon senso, l’unica opzione è scendere in piazza e unirsi in una protesta corale. Lo sciopero generale indetto dalla CGIL e dai Sindacati di base per martedì 6 settembre è un primo importantissimo passo verso la mobilitazione di massa che costituisce l’unico deterrente all’ulteriore degrado della condizione materiale, culturale, morale e di vita di milioni di lavoratori.
C’è chi sostiene che, in una situazione di crisi globale, uno sciopero è un atto irresponsabile e quanto mai inutile. Ma la responsabilità della crisi non è di coloro che scenderanno in piazza e manifesteranno tutto il loro dissenso, pagandone personalmente il prezzo. Lo sciopero è un diritto sancito dalla nostra Costituzione all’articolo 40 ed è l’unico strumento autenticamente democratico cui i lavoratori possono ancora fare ricorso.
Sarà retorico ma… “se non ora, quando?”.
Patrizia Proietti
Segreteria Regionale PRC – Federazione della Sinistra

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