I politici tacciono, parlano i generali
Di dr. Letizia Cerqueglini, Università di Beer Sheva
BEER SHEVA - Il tempo cambia nel deserto del Negev. Le notti sono più fredde, aumenta l'umidità, aumentano gli sciami di insetti, si sollevano turbini di vento, trascorrono gli astri nel cielo si settembre: sta iniziando un autunno che si prospetta infuocato in tutto il Medioriente. Le lucertole grigie mutano la coda, si muovono impacciate, facili prede di gatti e uccelli rapaci. Constato che in natura la pace non esiste. Da diversi giorni i politici non parlano più, non fanno dichiarazioni. Presidenti e ministri tacciono, sia da parte israeliana che da quella palestinese (che da quella egiziana). Parlando con i soldati israeliani, nei giorni scorsi, appena dopo gli attentati, mi accorgevo che ancora non sapevano di preciso dare un' interpretazione e una risposta a quanto accadeva e articolare che tipo di strategia l'esercito intendesse seguire. Parlavano di Gaza, sognando ad occhi aperti l'incubo dei tunnel che dalla Striscia passano sotto ai reticolati e al terreno minato e arrivano in Israele: una groviera di canali, il ventre di Gaza, attraverso cui i terroristi escono dal loro territorio e vanno a compiere azioni dentro i confini di Israele. Attraverso uno di questi tunnel, come trascinato nella tana di una belva, è scomparso Gilad Shalit. Ce ne sono molti, li usano i terroristi, li usano i criminali comuni. I giovanissimi soldati rabbrividivano al pensiero come per una fiaba paurosa mentre conversavamo aspettando l'autobus. Nessuno parlava dell'Egitto, eppure sembra che gli attentatori siano entrati e riusciti proprio da lì.
Adesso l'obiettivo, la strategia e il nemico si vanno meglio definendo. Ma nel Medioriente i confini sono molti e impercettibili: ad ogni passo si attraversa un intrico di barriere culturali, linguistiche, religiose, territoriali, parentali, nazionali, così numerose che costituiscono gradienti di un sistema continuo, incroci di un'unica trama, in cui ogni giudizio è un taglio arbitrario nell'insieme denso, densissimo, della storia. Le identità si definiscono e si dissolvono in bilico sul dedalo intricato del tempo, si prendono gioco dell'osservatore, la semantica dei simboli trascorre tra gli estremi opposti. Capire da che parte viene il nemico è come orientarsi nel deserto.
Da qualche giorno i politici non parlano più. Nessuna esternazione da parte del governo provvisiorio egiziano, nessuna dal governo dell'ANP. Nemmeno Hamas parla, e comunque non ha rami collaterali in Egitto. Ahmadinejad invece rivendica il diritto a sradicare Israele e manovra attraverso il regime siriano di Assad e il Libano. Chi in Israele teme l'apertura del fronte settentrionale non ha tutti i torti: non solo per la questione energetica di cui abbiamo discusso nel precedente articolo di questo reportage, ma anche perché una bella guerra umanitaria contro la disumana Medinat Israel sarebbe proprio utile a far dimenticare i massacri di Palestinesi a Latakia e le repressioni atroci attuate in questi giorni. Bashar al-Assad ha già consentito un'incursione nelle zone occupate da Israele sulle alture del Golan. Hezbollah sta organizzando un'altra guerra oltre il confine libanese. Per non parlare della rivoluzione libica: anche dal deserto libico arrivano armi per Gaza, sempre via terra, attraverso l'Egitto. L'intelligence israeliana è già in allarme per quello che potrebbe succedere se le armi chimiche di Gheddafi cadessero in mano ai ribelli.
La politica ha lasciato il posto alla strategia. Da alcuni giorni parlano i generali, i colonnelli israeliani, i capi della polizia e dell'esercito egiziano. Dal comando dell'esercito israeliano dichiarano che il fronte del deserto deve essere pattugliato, rinforzato protetto: hanno movimentato uomini e mezzi a questo scopo, attestandoli alla frontiera. Ieri, violando uno dei punti del trattato di pace tra Egitto e Israele dalla sua stipula, Israele ed Egitto, insieme al garante statunitense, hanno deciso l'utilità dell'ingresso dell'esercito egiziano nel Sinai, che era stato a suo tempo dichiarato zona smilitarizzata. L'esercito e la polizia egiziani da una parte della frontiera (Operation "Eagle"), l'esercito israeliano dall'altra. L'immagine non promette bene, non fosse per il fatto che entrambi si sono mossi allo scopo di combattere criminali e jihadisti assortiti che affollano lo sconfinato, ingovernabile, inquieto deserto da un lato e dall'altro del confine, aumentando i check point, scavando trincee e barriere ad al-Nazr, al-Balusa, al-Arish. L'operazione "Eagle" è iniziata la scorsa settimana, quando un gruppo di salafiti (gruppo di estremisti, da cui è nato il movimento dei Fratelli Musulmani) ha manifestato nel Sinai e abbattuto una statua di Sadat.
Lo scopo dell'operazione è ripulire il Sinai dall'eventuale presenza di al-Qaida, da tutti gli altri gruppi di fanatici dissidenti non direttamente collegati ad al-Qaida e da quanti altri criminali l'abbiano eletto a domicilio. Eppure le fonti egiziane, tra cui il governatore militare della penisola del Sinai, Mabruk el-Wahhab, affermano e ribadiscono che al-Qaida nel Sinai non c'è. A movimentare il panorama della dissidenza locale sarebbero gruppi di takfiriti. (Questi sono estremisti religiosi, che derivano il loro nome dalla parola coranica "kafirun", cioè infedeli, dalla stessa radice di "kafar", "villaggio", parallelo arabo del nostro "pagani" dal latino "pagus", "villaggio" appunto). Gli aderenti alla takfiriya sono coloro che reputano la società civile moderna pagana e infedele al dettato religioso. Un orizzonte locale, insomma, sostengono le autorità, forse minimizzando: l'Egitto è la patria di movimenti come i Fratelli Musulmani, non lo dimentichiamo. Difficile dire dove passi il confine tra questi gruppi e al-Qaida, e se questa non abbia simpatizzanti in Egitto. Pochi giorni fa polizia egiziana ed esercito israeliano hanno condotto a termine un'azione contro un jihadista di al-Qaida ad El-Arish.
La stampa egiziana adombra anche un coinvolgimento dei beduini del Sinai nella rete del terrore. Non è un mistero che abbiano preso parte ai moti della Primavera araba egiziana, visto che il Sinai è una delle aree più depresse dell'Egitto e i vecchi "shaykh" (capifamiglia) beduini non celano la loro antipatia verso il passato governo di Mubarak, che aveva lasciato l'area Sinaitica completamente priva di servizi e non aveva fatto niente per sollevare le sorti economiche dei beduini, allevatori di cammelli e bestiame minuto, ma certamente isolati dal mondo, non alfabetizzati e lontani da qualsiasi struttura medica. Ma da questo ad essere sabotatori del gasdotto verso Israele e attentatori il passo è molto lungo. Per due ragioni almeno i beduini in genere non dovrebbero essere coinvolti in questi fatti, o almeno non come gruppo sociale e politico nella loro interezza: primo, non hanno interesse ad attirare clamorosamente polizia ed esercito nei loro territori tribali, dato che il commercio di cui alcuni di loro vivono non è lecito (commercio di vari beni "al mercato nero", una economia nell'economia, diremmo, visto che questi nomadi si concepiscono al di fuori della società maggioritaria e dalla sua organizzazione politica, ma in costante dialogo con essa); secondo, non hanno interesse a far deteriorare i loro rapporti con Israele, dove vivono beduini appartenenti alle loro stesse famiglie. Nel 1906 le famiglie beduine del deserto arabico-levantino furono arbitrariamente divise dalla linea di confine altrettanto arbitrariamente tracciata fra Sinai e Negev, trovandosi in due realtà politiche diverse con un confine invalicabile, qualcosa che snaturava la geografia delle loro migrazioni e i commerci su lunga distanza. In Israele i beduini sono socialmente integrati: il governo ha costruito case, percepiscono un sostegno economico, frequentano le scuole con le sovvenzioni statali, molti di loro hanno una carriera affermata in vari settori. Alcuni sono rimasti senza impedimenti alla vita tradizionale. I maschi fanno il servizio militare e tutti hanno passaporto israeliano. Terzo possibile punto della lista è che i beduini, nonostante depositari della più nobile tradizione araba, stimati perché grandi guerrieri, uomini temprati dal deserto, onesti, leali, coraggiosi ed eccellenti poeti, non sono mai stati buoni musulmani, nonostante abbiano aderito formalmente all'Islam. Pregano le loro antichissime divinità arabe, quelle che venivano adorate prima della predicazione di Maometto, in quell'epoca precedente alla rivelazione islamica che i musulmani definiscono "jahiliya", cioè "ignoranza". I beduini conservano tracce del culto solare, evidenti dai nomi dei maschi, osservano le stelle, compiono rituali riconducibili ad un orizzonte religioso animistico, tesi a favorire le forze della natura e ad allontanare i pericoli della vita del deserto. Le donne godono di molti diritti e libertà in più delle altre musulmane, garantiti dalla legge beduina che si discosta dalla legge religiosa della shari'a. Il mio professore mi dice che addirittura ancora negli anni Sessanta non conoscevano in gran parte le preghiere quotidiane islamiche. Molti capi tribù beduini del Sinai dichiarano espressamente l'estraneità dai fatti recenti delle loro famiglie, accusando delle azioni di disturbo e degli atti terroristici addirittura alcuni fedelissimi del regime deposto, che sarebbero intenzionati a screditare la portata progressista della Primavera araba e a destabilizzare gli equilibri nella delicata fase del trapasso politico verso il nuovo governo, cagionando addirittura un'entrata in guerra senza un governo alla guida del paese.
Altre cose restano da chiarire: come il significato dell'attentato portato a termine da un giovane kamikaze che si è fatto esplodere la settimana scorsa presso un check point egiziano. Le ipotesi di interpretazione sono tutte suggestive. Probabilmente il mondo arabo, nel prisma delle sue mille e una prospettive, sta ridefinendo i rapporti di forza e i suoi equilibri interni, tra i vari gruppi, rivoluzionari, estremisti e riformisti, che trovano in Egitto la loro sede storica. Emerge anche ad un occhio attento il fenomeno della lotta fra l'elemento urbano e quello tribale, anche questa osservabile sul filo dei millenni, che se in Egitto ha visto lottare i beduini a fianco dei giovani rivoltosi, in Libia ha visto i berberi combattere contro il regime delle famiglie arabe beduine. Le varie rivolte hanno pochi elementi etnico-politici in comune, a riprova che sono piuttosto dovute a rivendicazioni economiche e sociali. In generale, la Primavera araba è una lotta del mondo degli outsider extraurbani contro quello delle città, cioè degli emarginati e poveri contro i governi delle città dove sono i centri del potere. E' successo già nel Vicino Oriente, proprio in concomitanza di un'altra epocale crisi: alla fine dell'età del Bronzo, a seguito di un tremendo collasso economico che colpì il Mediterraneo orientale. Cambiò tutto: i metalli, le monete, le merci scambiate, le rotte, i porti e gli ordinamenti politici. Qui nel Levante, gli elementi nomadi o comunque non urbanizzati, forse esasperati dalla povertà, ebbero il sopravvento sulle civiltà stanziali e popoli di pastori depredarono e deposero le élites delle città-stato cananee e filistee per creare dei regni entro i confini dei loro territori tribali, le loro lingue, i loro dei. Tra questi gruppi c'era il nucleo sociale dell'antico Israele. La teoria dei ricorsi storici depone a favore della tesi economica, ma con la globalizzazione è sempre più difficile da applicare e interpretare.
Intanto ieri Gaza (cioè Hamas) ha accettato il cessate il fuoco: finiti i lanci, finita la contraerea israeliana (che tutti si sono affrettati all'ONU a dichiarare criminosa. Il lancio di missili dalla Striscia no. Ma questa è una storia vecchia e non fa più notizia. La notizia è che a settembre non solo si prospetta la dichiarazione di indipendenza della Palestina, ma anche Durban III, che, dopo le dichiarazioni razziste, antisemite e negazioniste di Durban I nel 2001 e Durban II nel 2009, conferma le sue posizioni antisraeliane ed antiebraiche lasciando presiedere i lavori al presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad). La Palestina è lontana sia da una primavera, che dall'indipendenza, anzi, è vittima anche lei di manovre politiche che si decidono molto lontano dai suoi angusti confini. La guerra dell'informazione è senza esclusione di colpi. E Israele è solo a dover badare a sé stesso. Perché in Israele non c'è petrolio. E se ci fosse si saprebbe come gestirlo in proprio. Israele è uno stato moderno e quindi nessuno viene qui a dare una mano contro i cattivi di turno in cambio di benefici energetici. Eppure nessuna nazione del Vicino oriente potrebbe esportare tecnologia, problem solving e cervelli quanto Israele. Ma in questo momento c'è poca fantasia in fatto di merci e valori di scambio.
Nel Medio Oriente sono nate filosofie e religioni, ma questa è una terra per niente astratta. Quando si entra in contatto con la guerra in Israele si ha una sensazione profondamente straniante. La gente va e viene, va a fare la spesa, partorisce, va a ballare, ai concerti: la vita continua, con le oscillazioni dei prezzi, e con i dibattiti in parlamento, che sono la parte più noiosa della guerra. Vedere un missile cadere in televisione è diverso che sentirlo arrivare. Quando osservi la scena sullo schermo ti puoi concentrare meglio sulla portata tragica e inumana dell'evento, hai il tempo di realizzare che non è giusto, di meravigliarti, di indignarti, di chiederti se c'è un dio e che cosa sta facendo, di sentirti fratello di quello che sta per essere ucciso ed esecrare il gesto, cioè di attivare una serie di comportamenti culturali. Quando ci sei dentro, ti concentri sull'impatto, sei nella bussola dei dadi, tanto che nemmeno definisci la tua emozione, talmente è concreta che non sembra nemmeno un'emozione: è un'esperienza personale, molto personale. Essere un bersaglio mobile ti fa indignare quanto essere attaccato da uno squalo: non ci credi nemmeno. In questo momento a Gerusalemme l'allarme attentati è altissimo. Eppure qui tutti sono molto tranquilli, una tranquillità epicurea, che non è rassegnazione, è un concreto esercizio filosofico: i soldati vanno da una base all'altra sugli autobus nel deserto e fanno i galletti con le soldatesse, ingombrate da valigioni e beauty case di dimensioni ragguardevoli. Le mamme li accompagnano con l'auto alla fermata dell'autobus, sorridono, dicono: fate i bravi!, come se andassero a scuola. Li salutano con affetto, con orgoglio. Vincere la guerra significa non darla vinta alla paura, nella dimensione della vita di tutti i giorni e della sua dignità. All'estero arriva solo la parte sensazionale dello scontro, mentre in Israele si bada saggiamente alla politica più che alle bombe, e gli si dà un peso maggiore, perché alla fine è la vita di tutti i giorni da cui si tirano le somme e non le tragedie impreviste. Lo sanno gli indignados che hanno continuato a manifestare contro il carovita anche dopo gli attentati. In Israele la coscienza civile è ancora molto vigile. E proprio quello è il bene più prezioso da difendere.

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