Di dr. Letizia Cerqueglini, Università di BeerSheva

BEERSHEVA - Sono le 19.18 ora italiana del 25 agosto 2011. Gli elicotteri solcano il cielo ormai buio, ho sentito un colpo in lontananza, ma non so dire quanto lontano, e poi i cani si sono messi ad ululare. Continuo a scrivere dal deserto intorno a BeerSheva, il nervo scoperto del mondo in queste ultime ore. La guerra continua, è continuata questa notte con il lancio di una ventina di missili da Gaza e con la contraerea israeliana. Sono andati avanti così per tutta la notte, da una parte e dall'altra.

Questa notte non mi meraviglierei se ricominciassero. Le armi non mancano, i missili piovono copiosamente sulle città del sud di Israele: dalla caduta di Mubarak c'è stato tutto il tempo di rimpinguare le scorte attraverso l'Egitto. Un centinaio di abitanti della Striscia sono stati ricoverati per cure mediche in Israele. L'esercito ha aperto i valichi per farli uscire e per far entrare i volontari delle organizzazioni umanitarie e mentre i militari aprivano piovevano su di loro granate. Il terrore non è solo contro Israele, ma a farne le spese sono anche gli abitanti di Gaza. Anche dalla parte israeliana ci sono stati feriti, un bambino di nove mesi. Così vicino a me. La settimana scorsa, quando sono avvenuti gli atti terroristici lungo la strada di Eilat, Israele mi è parso un posto tanto piccolo che sentivo il dovere di andare al funerale di quelle persone, come facevo da bambina nel mio piccolo paese dell'Umbria. Il gioco di prospettive non è per niente banale. Quello che mi manca di più in questi giorni è una qualche esternazione da parte di Abu Mazen, molto più che solo e ridotto al silenzio. Ma anche Hamas, in fondo, dà segni di cedimento, ammettendo il controllo iraniano nei suoi territori.

Quella notte in cui tutto è cominciato, la settimana scorsa, ci svegliammo più volte per via delle sirene che ci esortavano ad andare nel rifugio. In Israele c'è chi ha un rifugio antimissili in cantina, pieno di conserve, chi ha una stanza della casa con le pareti rinforzate. Altrimenti, qualora colti per strada nelle nostre occupazioni quotidiane o notturne, ci si può infilare in uno dei rifugi pubblici, costruiti in ogni quartiere, che in tempo di pace sono occupati da artisti che espongono le loro creazioni (nelle città israeliane non c'è un quartiere di artisti: ogni quartiere ne ha almeno una dozzina famosi). Mi è parso di capire in questi anni che l'attenzione all'edilizia d'assedio, comunque, ossessiona piuttosto i telaviviani della grande città, disperatamente protesa verso l'Europa, tra memorie e speranze, che non gli eroici pionieri del deserto che sono venuti nel Negev armati di coraggio e begli ideali per farlo fiorire.

Mi fanno pensare non senza tenerezza agli eremiti di Qumran, che vivevano la loro vita cenobitica, riciclando lo sterco degli animali per concimare, pregando e meditando sul significato dell'ombra e della luce, venti secoli fa, quaranta km a est da qui. Il deserto è un simbolo dai molti significati, ed è anche luogo di riflessioni e rifugio di dissidenti. Quella notte, quando è iniziata l'excalation di violenza, che non cessa nemmeno adesso che sento gli aerei passare sulla mia testa, al terzo missile annunciato ho preso il pick up e me ne sono andata a dormire trenta km a sud nel deserto, vicino agli accampamenti beduini dove lavoro. Uscendo dalla città lungo la Main Road 40 i racconti di guerra dei miei nonni mi attraversavano la strada. Me li vedo che scappano mentre i tedeschi sparano in piedi dal portellone degli elicotteri a qualsiasi cosa si muova nella campagna umbra. A volte li sogno, incespicare terrorizzati da una casa all'altra, da un cespuglio all'altro, da una fienile all'altro, scegliendo a caso, appesantiti ed estenuati fino ad arrendersi allo scoperto. Quando ho raggiunto un posto per fermarmi, su un ciglio del Maktesh Qatan, ormai era quasi l'alba, l'ora più fredda e più buia della notte del deserto; nell'arabo dei beduini che vivono qui e in ebraico biblico la parola per l'aurora è la stessa e indica l'oscurità più densa e il chiarore più brillante allo stesso tempo, quella che si trova nel salmo della sentinella che aspetta l'aurora. Non sono un'esperta di armi e mi chiedo chissà perché proprio nel cuore della notte si scatenino gli attacchi da Gaza e non tanto durante il giorno. Non ero spaventata ma piuttosto irritata dal trambusto. Mi sono seduta vicino ad uno dei rarissimi alberi di pistacchio che nascono spontanei da queste parti, e ho bevuto del caffè al cardamomo, "alla turca" come lo fanno qui e in tutti i territori che furono dell'impero ottomano, un impero favoloso, che sembra essere stato fondato sulla tolleranza, sui generi voluttuari e sul cibo consolatorio. Il mio professore mi invita sempre a non perdere mai il senso della storia nei fatti che succedono.

Quella notte di veglia ho vagato in riflessioni sull'idrografia del deserto, che non avevano niente a che fare con la guerra in corso, o forse, indirettamente, sì. I problemi sono due, drammatici, e ancora una volta, Israele è la testa di ponte verso la loro soluzione o un futuro incerto per l'umanità intera: l'acqua e l'energia. Due cose che mancano, due problemi da risolvere. Eppoi c'è il deserto, in cui tutto succede, lontano dalle città e dai luoghi della politica. Nel deseerto del Sinai, lo abbiamo già visto, passano uomini e merci, legali e illegali. Passano anche i gasdotti che dall'Egitto esportano il gas verso Israele, sprovvisto di fonti energetiche, coprendone il fabbisogno per il 40 %. Israele dipende dall'Egitto per il rifornimento del gas, e l'Egitto non ha interesse a perdere questo acquirente. Almeno, fintantoché l'Egitto ha avuto un governo. Israele dal canto suo, visto che da questa primavera si susseguono manomissioni del gasdotto del Sinai, mirate a sabotarlo, vorrebbe rendersi indipendente per evitare di ritrovarsi vittima di tali ritorsioni. Recentemente sono state scoperte importanti risorse di gas sottomarino al largo della costa settentrionale, quella che i geologi definiscono la piattaforma del mediterraneo orientale. L'Iran ha mandato subito un'équipe di esperti per sostenere e comprovare che quelle riserve apparterrebbero esclusivamente al Libano. Ecco di nuovo la longa manus di Teheran, dunque, che sostiene i suoi regimi vassalli, come li abbiamo già definiti. Ed ecco il senso dei timori di chi evocava pochi giorni fa l'incubo del fronte del Libano. Il clima si stava surriscaldando già prima che si ventilasse l'ipotesi della proclamazione di indipendenza della Palestina prevista in settembre, una riprova della sua irrilevanza di fondo in quello che sta succedendo ora. In generale non so dire se effettivamente ci siano delle novità in quello che succede qui.

Il segnale più allarmante lo sento venire dall'Europa, dove l'antigiudaismo di matrice islamica ormai è fuori controllo e la società civile, in nome del multiculturalismo, ha abdicato al suo ruolo di difesa della diversità e della multiculturalità. Ad un certo punto dobbiamo essere rimasti un po' confusi da varie chimere senza sapere quale ascoltare. Ma questa notte, nel deserto, con tutto quello spazio e la polvere che non era altro che polvere e le stelle che non erano altro che stelle, e con gli occhi aperti, ho avuto la sensazione di capire i sogni di questa terra e capire il senso molto semplice della convivenza. Ho ripercorso mentalmente la via delle carovane che la attraversavano in antico. Le piste si snodavano allora dalla penisola araba e dall'Egitto al Sinai, alla Salita degli Scorpioni, verso Gaza, la capitale della Pentapoli Filistea, e verso Gerusalemme e i suoi ancestrali santuari di montagna a guardia della valle del Giordano, disegnando vari tracciati a seconda delle epoche. Il libro della Genesi racconta che qui intorno a BeerSheva, in un tempo ignoto, i patriarchi Abramo e Isacco fecero un patto di non aggressione con i filistei di Abimelech.

Per questo ho fede che dal deserto la vita possa rinascere. Questa terra riarsa solo in apparenza non appartiene a nessuno. Appartenere a tutti non significa non appartenere a nessuno. Con questo pensiero il mio caffè al cardamomo era finito e la luce più intensa mi riconsegnava al giorno. Primo giorno di guerra.

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