Di C. R.

Nella conferenza stampa a sorpresa convocata venerdì 5 agosto, a mercati chiusi, Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti hanno snocciolato ai giornalisti i 4 punti della loro ricetta per uscire dalla crisi in cui è scivolata l'Italia. I primi tre interventi urgenti previsti dall'esecutivo sono piuttosto chiari: anticipo della manovra al 2013, modifica dell'articolo 41 della Carta e pareggio di bilancio costituzionalmente obbligatorio. Nell'elencarli, Tremonti è stato molto attento, ha scandito le parole, è sembrato molto determinato.

Sul quarto punto, invece, è parso più indugiante. L'ha quasi buttato lì, senza soffermarcisi troppo. Il ministro dell'Economia ha semplicemente detto: "Uno dei pilastri (dell'intervento ndr) sarà la riforma del lavoro. C'è un testo importante già elaborato, sarà presentato alle parti sociali per essere portato al Senato". Tremonti ha poi detto che questo intervento servirà "per l'attrazione degli investimenti e il futuro dei giovani".

Insomma, in quell'occasione, ha evitato di pronunciare distintamente le parole: "Statuto dei lavori". Nonostante nei mesi scorsi sia stato il suo cavallo di battaglia, stando alle agenzie di stampa, neanche il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi sembra aver voluto pronunciare quelle tre parole magiche nei giorni immediatamente successivi.

Anzi, Sacconi dopo la conferenza stampa ha predicato confronto e responsabilità: "Il confronto può essere paziente ed approfondito, senza preclusioni e pregiudizi", ha confidato in una nota il ministro, secondo cui "si tratta di fare leva sulla tradizione delle relazioni industriali e del ruolo sussidiario delle organizzazioni rappresentative del lavoro e dell'impresa per incoraggiare le nuove iniziative imprenditoriali e la propensione ad assumere".

Eppure è proprio alla riforma dello Statuto dei lavoratori, e più precisamente al famigerato "Statuto dei Lavori" ha fatto riferimento Tremonti. Un testo molto discusso che è stato presentato il 15 novembre 2010. In quella data Sacconi ha inviato alle parti sociali la bozza di un disegno di legge delega, con cui si intende riformare lo Statuto dei lavoratori, nato 41 anni fa (legge 300/1970). A sindacati e imprese il ministro chiedeva allora "un necessario avviso comune". Il testo, affermò Sacconi nel corso di una conferenza stampa, solo "come modificato dalle parti sociali potrà essere presentato in Consiglio dei ministri e quindi in Parlamento". Seguirono proteste e scontri verbali, poi quella bozza si perse di vista. Ma è proprio quello il testo a cui si riferiva Tremonti venerdì scorso parlando di "riforma del mercato del lavoro".

Ma vediamo di che si tratta. La bozza si compone di due articoli: il primo di conferimento della delega al governo (da esercitarsi entro dodici mesi dall'entrata in vigore della legge: una delega molto ampia nei contenuti) e il secondo che ne esplica le modalità. Il disegno governativo sembra molto evidente sin dall'inizio della relazione, dove righe e righe si spendono per dimostrare come l'attuale Statuto imbrigli la nostra economia, mentre uno strumento più agile favorirebbe la creazione di maggiori opportunità di lavoro. E qui una prima domanda si pone: è compito di uno Statuto dei lavoratori "sbrigliare" l'economia? O non piuttosto quello di fissare regole, diritti e tutele per i lavoratori entro cui l'economia si sviluppa?

In ogni caso, come affermò già allora la Cgil, l'idea di Sacconi non offre "nessuna novità rispetto al Libro Verde: si propone una concezione d'impresa svincolata da obblighi sociali e di un lavoro sempre meno considerato come valore e sempre più inteso come mero fattore della produzione. Una scelta sbagliata e perdente, come le politiche di questo governo, e che contrasteremo".

Compaiono poi tutti i cavalli di battaglia del ministro, quelli anche contenuti nel Piano triennale del lavoro presentato l'estate scorsa: una soglia davvero minima di diritti per tutti e poi il resto "frullato" in tutte le variabili possibili: sussidiarietà, enti bilaterali, compatibilità economiche, variabili geografiche e settoriali". Insomma, uno sbriciolamento. Ma in questo, l'uso delle parole è significativo: per la sua creatura il ministro ha scelto l'espressione Statuto dei lavori. I lavoratori per non esistono più, sono invisibili.

L’articolo 2 del disegno di legge, invece, contiene alcune disposizioni di ordine tecnico concernenti l’esercizio della delega di cui all’articolo 1. Gli schemi dei decreti legislativi, deliberati dal Consiglio dei Ministri e corredati da una apposita relazione, devono essere trasmessi alle Camere, per l’espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari, solo una volta sentite le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei datori e prestatori di lavoro.

E' probabile, dunque, che sarà soprattutto questo il terreno di battaglia su cui si confronteranno sindacati e governo nei prossimi tempi. Non è un caso che oggi (8 agosto) nella lettera "segreta" inviata dai banchieri centrali europei a Berlusconi e svelata dal Corriere della Sera, quella che segna il "commissariamento" del governo italiano, si parli anche di mercato del lavoro. "Ma stavolta - scrive il Corriere - Trichet ci entra e lo fa nei dettagli: chiedendo meno rigidità nelle norme sui licenziamenti dei contratti a tempo indeterminato, interventi sul pubblico impiego, superamento del modello attuale imperniato sull'estrema flessibilità dei giovani e precari e sulla totale protezione degli altri".

E non è un caso neanche che la Cgil abbia reagito subito. "Il principio fondante lo "Stauto dei lavori" è assolutamente inaccettabile e cioè quando stabilisce che i diritti debbano discendere dalla tipologia di impiego. E' un assunto per noi assolutamente non accoglibile", ha subito affermato Claudio Treves, responsabile per il mercato del lavoro del sindacato di Corso d'Italia, commentando l'ipotesi che la riforma nasconda la modifica dello Statuto dei lavoratori.

"La cosa devastante in quel progetto, oltre il nulla di cui sono composte le due paginette scarse, è la previsione del tutto ideologica che è la riduzione del 50% della legislazione del lavoro e la derogabilità, tolti i diritti definiti dalle convenzioni internazionali, a qualunque livello. Un fatto che potrebbe scatenare una corsa verso il basso perché ad ogni derogabilità di una azienda corrisponderà una pressione proveniente da un'altra azienda per avere più derogabilità rispetto alla prima". Insomma, conclude Treves, "si produrrà un modello dove vince chi deroga di più determinando un inaccettabile assetto sociale che fa a pugni con qualunque ipotesi di autonomia del diritto rispetto alle eleggi della concorrenza". L'autunno italiano, insomma, si prospetta davvero rovente.

Fonte: rassegna.it

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