Obama: «Due popoli due Stati Israele torni ai confini del ’67»
Sei mesi dopo l’inizio della “primavera araba”, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, ha pronunciato un discorso che potrebbe definire il futuro politico del Medio Oriente. Soprannominato da molti “Cairo II” e incentrato sul successo dei movimenti popolari della regione, ma sopratutto i negoziati necessari per una soluzione tra Palestina e Israele, il discorso riflette quanto sia cambiata la posizione del presidente sul Medio Oriente. Pronunciando il suo primo discorso al mondo musulmano due anni fa dal Cairo, Obama, in compagnia dell’ormai deposto dittatore egiziano, Hosni Mubarak, aveva parlato a lungo del conflitto israelo-palestinese. Ieri in un discorso durato 40 minuti la sua attenzione è stata focalizzata sulle rivoluzioni in corso.
Una cosa è certa sentire un presidente americano parlare di diritti umani, religiosi, di genere e di informazione è sicuramente una novità degli ultimi decenni. Ma è bene incominciare sulla parte finale del suo discorso quello che molti aspettavano sul conflitto tra Israele e Palestina. Molti non si aspettavano un Obama pronto a rientrare nei giochi, ma a modo suo lo ha fatto. «Lo “status quo’ tra israeliani e palestinesi non è più sostenibile» ha spiegato Obama (che oggi incontrerà alla casa Bianca il premier israeliano Benjamin Netanyahu che sicuramente non avrà gradito il discorso), ribadendo che Israele «ha diritto alla sua sicurezza e i palestinesi non raggiungeranno mai la loro indipendenza semplicemente negando a Israele il diritto di esistere». Per questo «è tempo che vi siano due Stati per due popoli, capaci di vivere uno fianco all’altro in pace e sicurezza e che i negoziati riprendano».
E poi Obama ha fatto un passetto in più quando ha parlato di uno stato di Israele che deve ritirarsi entro i confini del 1967, che gli insediamenti devono essere fermati. Ai palestinesi fa sapere che gli Stati Uniti si oporranno alla richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese a settembre alle Nazioni Unite e chiede che la nuova alleanza tra Fatah e Hamas dia prova di concretezza e che riconosca il diritto di Israele. Toni pacati ma decisi, qualcuno ha anche registrato che non ci sono state parole forti contro Hamas, segno che per ora l’organizzazione ha ancora un margine di manovra. Un discorso quello di Obama in cui ha esaltato le rivolte che hanno interessato il nord Africa dove «troppo potere è concentrato in poche mani» e che «finalmente respiriamo una nuova aria, fresca», che si basa sulle aspirazioni di persone che «reclamano in primo luogo dignità umana». Aspirazioni contro cui «la strategia della repressione non funziona più». Rivoluzioni democratiche che sono state possibili anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione come internet, social network e tv satellitari ha riconosciuto il presidente. «I telefoni cellulari e le reti sociali permettono ai giovani di collegarsi, è emersa una nuova generazione e la sua voce ci dice che il cambiamento non può essere negato». Per Egitto e Tunisia inoltre un impegno più concreto.
Un specie di piano Marshall di aiuti economici americani per incoraggiare il processo di democratizzazione del mondo arabo. Dollari che secondo Obama dovrebbero creare lavoro e stabilità. Per la Tunisia promesse di collaborazione finanziaria ed economica, più materiali gli aiuti per l’Egitto a cui promette 2 miliardi di dollari: uno che sarà cancellato dal debito che il Cairo ha verso Washington, un miliardo in un piano di presiti che però saranno decisi non dal neo governo egiziano, ma da Washington. E soprattutto Obama ha parlato di un piano di interventi economici e finanziari che dovrà essere preparato dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca Mondiale al prossimo G8 di Deauville, e se si guarda alla Grecia non promette nulla di buono. Anche l’Opec sarà coinvolto con «fondi imprenditoriali di investimento nei due paesi». Un progetto sul modello di quanto fatto nell’Europa dell’Est ha detto Obama dopo la fine della Guerra Fredda. Tornando al cuore del discorso Obama ha parlato anche di un cambiamento più generale della politica estera americana. «Per decenni gli Usa hanno condotto una politica favorevole ai propri interessi nella regione: lotta al terrorismo, commercio, difesa di Israele.
Ma se vogliamo cogliere l’opportunità che ci viene offerta oggi dobbiamo prestare attenzione ora i nostri interessi sono simili a a quelli dei popoli locali». E poi la lista dei dittatori che se ne sono andati, primi di tutti Egitto e Tunisia, ma Obama ha parlato anche di Yemen, Bahrein, Libia: i tempo «è contro Gheddafi» e il leader libico «alla fine lascerà». Parole dure anche per la Siria. Obama ricordando le sanzioni imposte mercoledì contro Assad, si è spinto un po’ oltre lanciando un primo avvertimento diretto: o Bashar al-Assad comincia a «guidare la transizione, ponendo fine all’uso delle violenze e rispondendo alle richieste del popolo siriano per un governo più rappresentativo avviato sul sentiero di riforme democratiche significative» oppure «lasci il potere». Esclusa dalla lista dei “cattivi” l’Arabia Saudita, troppo vicina a Washington per essere messa sulla lista nera. Ora Obama deve dimostrare che non sa usare solo le belle parole e che a queste deve far seguire i fatti.
Simonetta Cossu (Liberazione.it del 19 maggio 2011)

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