Di Dino Greco  -  Liberazione del 17 aprile 2011

Sì, è davvero una sentenza storica quella con cui il tribunale di Torino ha riconosciuto la catena di comando della Thyssen Krupp, fino ai vertici aziendali, colpevole di omicidio volontario per l’eccidio dei 7 operai arsi vivi la notte del 6 dicembre del 2007. Lo è perché stabilisce che esporre i lavoratori, consapevolmente, ad un rischio letale, significa incorrere nel “dolo eventuale” e, nel caso in cui la disgrazia si verifichi, la colpa grave, gravissima in capo ai responsabili è, appunto, quella di avere commesso un omicidio volontario. La sentenza è “storica” perché è un inedito, in un paese nel quale i quasi mille morti, per circa un milione di infortuni sul lavoro l’anno, non trovano una sede giudiziaria capace di rendere loro giustizia.

Con il risultato che non vi è un solo imprenditore che abbia mai varcato i cancelli del carcere per avere causato per propria inadempienza la morte di un lavoratore o gli abbia provocato - come accade a svariate decine di migliaia di persone che restano del tutto anonime - menomazioni fisiche e morali permanenti. E, soprattutto, con la conseguenza che questi “crimini di pace”, derubricati a mere fatalità quando vigliaccamente non siano attribuiti all’imperizia o all’incuria delle vittime, diventano moneta quotidiana, proprio perché non contrastati attraverso un’efficace sanzione penale.

Certo, la magistratura non basta ma, come osservava recentemente un procuratore generale della Repubblica, se non interviene una rapida e dura repressione dell’illecito, se non c’è un deterrente efficace, se non si impone tra i datori di lavoro, nelle istituzioni preposte alla tutela della salute pubblica, negli organi ispettivi e fra gli stessi cittadini, la convinzione che la sicurezza di chi lavora è sovraordinata a qualsiasi “esigenza tecnico-produttiva”, se una nuova cultura non fa breccia nel senso comune, allora anche la prevenzione si trasforma in una parola vuota.

La sentenza è storica perché buca il muro delle omissioni, delle complicità che hanno sino ad oggi consentito a tanti datori di lavoro (sic!) di vedere rapidamente rimosse le proprie responsabilità.

Raffaele Guariniello ha insegnato come una tempestiva azione inquirente può ostacolare la manomissione delle prove, rassicurare e sostenere le parti lese, impedire che esse soggiacciano al ricatto o alle minacce che, in questi casi, puntualmente vengono messe in atto dal padrone per scoraggiare chi chiede sia fatta giustizia.

Il pm torinese ha fatto cioè l’esatto contrario di quanto normalmente avviene in tante procure italiane di fronte a questi tragici eventi, dove la consuetudine è fatta di ritardi, omissioni e, ancora, archiviazioni, prescrizioni o, nei casi migliori, decreti penali ridotti a sanzioni risibili.

Si capisce allora la reazione dei vertici della Thyssen di fronte alla sentenza, da loro definita «incomprensibile ed inspiegabile». E che tale è davvero per chi sa di aver sempre potuto contare e speculare sull’impunità. C’è, anche in questo, qualcosa di illuminante su cui merita riflettere. Perché se l’impunità che Berlusconi chiede - e ottiene - è diffusamente considerata come l’espressione patologica della crisi della nostra democrazia, viceversa la giostra infernale che provoca la quotidiana ecatombe di morti sul lavoro e l’immunità chiesta - e sino a ieri ottenuta - dal mondo imprenditoriale che ne è responsabile sono, altrettanto diffusamente, considerate fisiologiche, inscritte cioè nell’ordine naturale delle cose. Questo avviene con la più assoluta naturalezza, perché i rapporti sociali dati, il primato assoluto dell’impresa e del profitto, hanno rifondato l’intera gerarchia dei valori, per cui diritti, dignità, sicurezza non sono vincoli assoluti, bensì condizioni transeunti, volatili, destinate ad essere liquidate ove l’impresa ritenga per sé utile revocarle. Insindacabilmente.

Quando Marchionne, con un colpo di spugna, decide di cancellare, nella più grande impresa italiana, tutti gli accordi collettivi stipulati dal 1945 ad oggi per imporre condizioni che, prima di ogni altra cosa, aumentano stress, fatica fisica e mentale, non fa che esporre i lavoratori e le lavoratrici a rischi crescenti. Ecco allora perché il ricorso legale contro la Fiat per la costituzione della Newco che la Fiom depositerà domani presso la cancelleria del tribunale del capoluogo piemontese si configura come l’altra faccia della medesima battaglia tesa a riportare la Costituzione dentro quei luoghi di lavoro dai quali la si vuole estromettere.

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