Il lavoro è un bene comune? Le ragioni di un seminario
Maria Rosaria Marella
L’espressione bene comune associata a lavoro non ha un significato immediatamente percepibile, non la stessa nitidezza che il sintagma assume quando è riferito all’acqua, al sapere, allo stesso spazio urbano.
Compare per la prima volta, che io sappia, come slogan della FIOM durante la manifestazione nazionale dello scorso 16 ottobre, in risposta alla politica industriale messa in campo da Marchionne. E appare subito problematica: in una fase un cui la espressione “bene comune” è adoperata per la sua capacità di evocare un modello di società e di economia alternativo a quello attuale, la formula lavoro bene comune suona per contro come una sorta di idealizzazione del lavoro, quasi si trattasse di un bene di cui tutti devono giovarsi, come l’acqua, appunto. Ma il lavoro non è un fattore neutro, o almeno non è questa la visione maggiormente condivisa nella tradizione politica europea, non è questa la lettura che ne danno i maggiori interpreti della modernità, da Karl Marx, a Hanna Arendt, a Michel Foucault; e si tratterebbe, ove non chiarita, di un’interpretazione tutto sommato nuova rispetto alla stessa cultura politica del sindacato italiano, che classicamente interpreta il lavoro come termine di un conflitto, col capitale, col padronato, o comunque con una controparte che dallo sfruttamento di quel lavoro trae il proprio potere economico, sociale e, fra l’altro, contrattuale.
Del resto questa idealizzazione che non trova una sponda neppure nella costituzione repubblicana, che, assai pragmaticamente e laicamente, nel fondare la repubblica sul lavoro (art. 1) marca soprattutto un mutamento antropologico, cioè il superamento del modello del cittadino borghese proprio dello stato liberale (Rodotà) e l’avvento dello stato pluriclasse (Giannini), che dei lavoratori infatti promuove la partecipazione politica (art. 3, 2° co.) oltre a garantire la condizione sociale (art. 36).
Allora perché parlare del lavoro come bene comune?
L’uso dell’espressione è qui svincolato dallo sfruttamento e/o dalla gestione di una risorsa e evoca piuttosto – come per formule simili invalse nella cronaca politica: democrazia bene comune, informazione bene comune – un’istituzione o un complesso di istituzioni, di relazioni politiche e/o di rapporti economici che hanno dignità costituzionale e funzione costitutiva di un dato ordine sociale e politico che si intende preservare.
Più semplicemente l’idea di bene comune richiama qui la dimensione più che collettiva, generale, dell’interesse sociale alla tutela del lavoro. L’espressione inglese più vicina è qui non quella di commons ma probabilmente quella di public good, dove il public non richiama lo stato ma dà invece il senso di quella dimensione generale, dell’essere di tutti, nell’interesse di tutti. L’esempio che mi viene in mente è quello della rivendicazione ad opera di una giurista liberal americana, Anne Alstott, del carattere di public good della cura e l’istruzione dei figli. Si dice: corrisponde all’interesse di tutti, cioè dell’intera società, la crescita e l’educazione delle nuove generazioni? Se così è, allora non possono essere i singoli genitori a farsene unicamente carico in senso economico e organizzativo come se fosse solo un loro interesse, un interesse individuale e privato. Parimenti – si potrebbe ragionare - la difesa del lavoro interessa tutta la società e non devono essere solo quegli operai colpiti dal peggioramento delle condizioni di lavoro a farsi carico del problema. Con una differenza: che dall’idea della cura dei bambini come public good emerge il tentativo di dar risalto ad un elemento di produzione sociale normalmente mistificato e nascosto, sebbene tradotto di regola in valore dal sistema attuale, mentre questo tipo di preoccupazione non si pone per il lavoro classicamente giudicato produttivo.
Ma resta il fatto che la visione che evoca l’espressione lavoro bene comune impedisce uno sguardo critico sul lavoro, uno sguardo che colga le sue articolazioni e i suoi cambiamenti (è un bene comune il lavoro precario? Il lavoro che invade la vita e i suoi tempi?), che si interroghi, fra l’altro, sul lavoro gratuito e su quelle attività comunemente percepite come non-lavoro. Un esempio per tutti, il lavoro domestico svolto in favore dei propri familiari: che cos’è, a quale statuto giuridico risponde? E, prima ancora, qual è il modo in cui è concettualizzato rispetto alla categoria lavoro? quale, di conseguenza, il suo apprezzamento sociale? È non-lavoro? È invece lavoro gratuito? E il tirocinio di uno studente come si qualifica? È lavoro gratuito o invece apprendimento professionalizzante?
In questo seminario cercheremo dunque di gettare sul lavoro il necessario sguardo critico con l’aiuto di una inchiesta realizzata da studenti e precarie, e con i contributi del prof. Adalgiso Amendola, dell’università di Salerno, e del prof. Cesare Salvi, già ministro del lavoro nei governi D’Alema e Amato.

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