Una regina a Roma: la Cleopatra Capitolina
Il nostro Umbrialeft si è a più riprese occupato di storia antica, soprattutto romana, favorendo in questo modo la divulgazione di argomenti troppo spesso confinati entro gli spazi accademici. Abbiamo dato particolare rilievo a una notizia ignorata dalla maggior parte dei mezzi di informazione italiani: l’identificazione di Giulio Cesare in un busto riemerso nel 2007 dalle acque del fiume Rodano, all’altezza della città provenzale di Arles. Nell’ultimo articolo dedicato all’argomento, un archeologo di vaglia come Paolo Moreno, attento a conciliare ricerca e divulgazione, ha esposto per noi alcune osservazioni formulate in riviste e saggi, una restituzione storica e archeologica che riguarda non solo l’immagine del dittatore, ma anche quella di Cesarione, lo sventurato figlio da lui avuto con Cleopatra. A questo punto, per riunire simbolicamente storie e percorsi dei componenti l’illustre nucleo familiare, vorremmo chiudere il cerchio occupandoci della regina. E ancora una volta, puntando l’attenzione su aspetti iconografici, ricorriamo alla bella narrazione del Moreno, autore nel 2009 del volume cui si è accennato e del quale si consiglia vivamente la lettura: “Cleopatra Capitolina”, Editinera. Abbiamo rivolto alcune domande al Moreno, che in questo articolo ricostruisce per noi le tappe più significative del percorso di studi - lungo e ricco di piacevoli scoperte - che l’ha portato a identificare con Cleopatra VII la statua nota nella letteratura archeologica come Venere Esquilina. L’intervista diventa occasione per una generale lezione di metodo nell’ambito dell’archeologia filologica.
Professor Moreno, dopo Cesare e Cesarione, è il turno del terzo elemento della “sacra famiglia”: la regina Cleopatra è stata infatti da lei riconosciuta nella celebre “Venere Esquilina”. Quali sono stati i “passaggi” più importanti dell’indagine?
«Nel 1874 fu scoperta a Roma sotto l’attuale via Ugo Foscolo, nell’area dell’Esquilino (occupata in epoca repubblicana da ville, poi divenute proprietà imperiale), una statua in marmo di Paro, copia da una figura di donna nello stile eclettico dell’ultimo ellenismo. Gli archeologi dell’epoca la considerarono una dea, e prese nome di Venere Esquilina. Attualmente è nei Musei Capitolini, al Palazzo dei Conservatori, Sala degli Horti Lamiani. Fin dall’inizio si notò che intorno al vaso di tipo egizio, posto al fianco della protagonista, c’era un cobra africano, simbolo del potere regale dal tempo dei faraoni: ouraîos o basilískos in greco, all’avvento dei Tolemei nel paese del Nilo. Le rose scolpite sulla cassetta dei cosmetici erano care ad Afrodite come a Iside (e questo lo leggiamo nelle “Metamorfosi” di Apuleio). In contrasto con la denominazione diffusa, si cominciò a osservare che il fisico non aveva riscontri nell’iconografia di Afrodite. Nel 1929 Alessandro Della Seta, indagatore della sapienza anatomica presso gli artisti greci, confermava l’indipendenza da un progetto ideale, bensì l’autentico nudo di una donna con caviglie forti, ginocchia grosse, divario tra la pienezza delle anche e la brevità del busto: notazione individuale, la plica puerperalis nell’addome, segno di recente maternità. Nel 1955 Licinio Glori, storico e glottologo, in una conferenza all’Accademia dei Lincei propose l’identificazione con la Cleopatra dedicata da Cesare alla regina che si era stabilita in Roma dopo la nascita di Cesarione (46-44 a. C.). Per rafforzare le considerazioni scaturite dai dettagli della scultura, lo studioso in quel tempo poteva riferirsi alla fisionomia di una testa al Vaticano che era stata riconosciuta, per confronto con tipi monetali, da Ludwig Curtius come effige dell’ultima dei Tolemei. Licinio Glori stampò a proprie spese l’opuscolo: “Cleopatra, Venere Esquilina”, Roma 1955, Bestetti, Edizioni d’arte. Forse perché l’autore non era specialista, lo scritto non fu preso in giusta considerazione: l’ultima citazione nella letteratura archeologica, prima dell’odierna riscoperta, è del 1966. Quando pubblicai la “Scultura ellenistica”, proponendo su nuove basi il riconoscimento di Cleopatra, non conoscevo lo studio del Glori: fu un fratello di lui a segnalarmelo. Confrontavo il ritratto pervenuto nel 1976 ai Musei di Berlino, che presenta con la statua Capitolina precipui tratti comuni e un inconfondibile difetto costituzionale: il prognatismo dei Tolemei, la sporgenza della mandibola frequente come garanzia dinastica nei profili monetali. Devo comunque ricordare che in una visita ai Musei Capitolini, quando ero allievo della Scuola Nazionale di Archeologia, la scultura ci venne presentata come contaminazione di Iside e Afrodite da Antonio Giuliano (allora Assistente di Ranuccio Bianchi Bandinelli, mio maestro), il quale accennò scetticamente che qualcuno aveva parlato di Cleopatra. Di lì cominciò la riflessione.
Che la bagnante abbia rimesso i sandali è accenno di quotidianità. Il disordine dell’asciugatoio dice che è stato usato. La capigliatura denuncia una situazione domestica: i ciuffi sulla fronte sono irregolari, alcuni girano a destra, altri a sinistra, ovvero sono chiusi a occhiello. Prima del bagno, la pettinatura a spicchi (Melonenfrisur), che conosciamo dai ritratti e dalle monete, era stata scomposta e i capelli raccolti in una benda per non lasciarli a contatto dell’acqua, dato che si curavano con olio profumato. Terminata l’abluzione, la donna ci è mostrata mentre li scioglie, per affidarli poi alla pettinatrice. Con la sinistra regge la massa risvoltata; le dieci ciocche che nascondono la fronte vengono dunque dall’estremo opposto dell’acconciatura disfatta, portato in avanti: lo strano arriccio che abbiamo rilevato è l’impronta della crocchia che annodava sulla nuca le dieci partizioni dell’originario assetto. Indizio significativo, quest’ombra pur casualmente addensata sul viso, che allontana il riguardante dalla concezione di Iside o Afrodite, presentate sempre con la fronte luminosa: l’effetto dei grossi boccoli rimandava approssimativamente alla parrucca di un ritratto egizio di Cleopatra (New York, Brooklyn Museum of Art).
Il divertimento dello scultore sul privato della regina, rientra comunque nella cifra artistica dell’Urbe al tempo di Cesare, dove Pasitele aveva radicato col discepolo Stefano il gusto per il recupero dell’intera tradizione ellenica. Nella Cleopatra l’acerbità dei seni, le spalle stondate e gli stessi, improbabili boccoli sulla fronte, appartengono all’eredità dello stile severo, variamente profusa nel repertorio di Stefano con l’Atleta a Villa Albani, i gruppi di Oreste e Pilade al Louvre, o di Oreste ed Elettra a Napoli, soprattutto coi nudi delle Tre Grazie di Siena.
Cornificio, nella “Retorica a Erennio” (circa 85), criticava il canone composito ricavato dalle principali fasi dell'arte greca: "una testa mironiana, braccia prassiteliche e un busto policleteo". Cicerone dipendeva per questo principio da Pasitele, che aveva aperto la sua via attraverso secoli di produzione artistica nel Mediterraneo, dai primitivi all'ellenismo, dall'Asia Minore alla Sicilia. Nato "sulla costa greca d’Italia", divenuto cittadino romano nell'89, Pasitele fu testimone di quella generazione di politici e condottieri che non riuscirono a invecchiare, travolti dalle guerre civili, ma lasciarono il segno rivoluzionario. Esponente egli stesso di una gioventù viaggiatrice, curiosa del mondo, e audace di mente, descrisse in cinque libri le “Opere più celebri di tutto l'orbe”: omaggio alla passione per la bellezza tra committenti e artisti, e manifesto di un fervente recupero. Qualcosa come la “Storia dell'arte presso gli antichi” di Giovanni Gioacchino Winckelmann per la nascita dell'Europa moderna.
Dalla presa di Siracusa nel 212, l’Urbe aveva visto una moltitudine di pitture e sculture greche dare corpo a un museo d’incredibili accostamenti epocali e di stile. Varietà dell’arte come insieme unitario, meraviglia dove tutto, prima o dopo, era comunque accaduto, e stava sotto gli occhi di tutti: patrimonio inesauribile, cui attingere con la libertà accordata alla mimesi come emulazione del passato.
La teoria artistica dell'italiota coincide con l'eclettismo che Varrone amava nella dottrina del linguaggio: il letterato intuisce la portata politica di Pasitele e della sua scuola. La diatriba sugli stili diventa tra i Quiriti questione morale: la purezza attica segno di rigore, le licenze formali sintomo di lassismo.
La via aperta da Pasitele ai suoi continuatori è l'equilibrata posizione confacente al cittadino romano. Varrone la fa propria nella classificazione enciclopedica: base alla restaurazione del sapere, dei costumi e dello stato nel disegno di Cesare e presto di Augusto. Nasceva con Pasitele una storia dell’arte italiana: ho sentito una guida che a Roma illustrava ai turisti la Paolina (quale Venere) di Antonio Canova alla Galleria Borghese, richiamandosi all’esperienza visiva della Cleopatra in Campidoglio”.
Dunque, la bagnante dell’Esquilino rappresenta Cleopatra. Si tratta della copia di un originale importante, anch’esso strettamente legato a Cesare...
“La scultura dall’Esquilino è una copia della statua dedicata da Cesare nel tempio che dominava il suo Foro, accanto al simulacro di Venere Genitrice. Agli ultimi anni di Antonino Pio (138-161 d. C.) si data l’opera storica di Appiano, il primo che accenna alla persistenza dell’originale della Cleopatra nel tempio di Venere Genitrice (“Guerre civili”, 2, 102). Nato ad Alessandria e con l’esperienza acquisita in Italia al tempo di Adriano quale procurator Augusti, lo scrittore garantisce l’informazione sulla regina sia dal versante egizio, sia nella familiarità con l’Urbe, quando precisa che a coronamento del nuovo complesso civile Cesare “pose l’icona bella (eikòn kalé) di Cleopatra presso la dea: e tuttora le sta vicino”.
Negli anni 211-229 d. C. la presenza è confermata da Cassio Dione (Storia romana, 51, 22, 2-3): nel raccontare il trionfo sull’Egitto, ricorda che nella Curia Giulia, dedicata da Ottaviano al nome del padre adottivo che l’aveva fondata, la statua della Vittoria "fu decorata con le spoglie egizie, e questo volle [Ottaviano] anche nell’herôon di Giulio che allora veniva dedicato: anche in quello molti preziosi furono offerti, e altri ancora consacrati a Giove Capitolino, a Giunone e a Minerva […] e così Cleopatra, benché sconfitta e catturata [ma solo in effige, per il trionfo] fu glorificata, poiché i suoi ornamenti stanno nei nostri santuari, e lei stessa la si vede aurea (chrysê) nel tempio di Venere". L’impostazione ideologica si accentua nell’accostamento realizzato da Ottaviano della tavola di Apelle con l’Afrodite Anadyoméne, “sorgente dal mare” nell’atto di far sgrondare la chioma, alla statua eroica del Dittatore (Plinio, “Storia naturale”, 35, 91): non solo partecipazione dell’antenata della gens Iulia alla gloria del discendente, bensì riscontro alla Cleopatra amata da Cesare, che ora sappiamo essere un’umana bagnante col gesto dell’Anadiomene, accanto alla statua di culto della Genitrice. A suggello dell’intenzione metastorica, apprendiamo da Plinio (35, 87) che la nudità della dea di Apelle ripeteva le forme di Pancaspe, favorita del Macedone: clamoroso parallelo con l’apoteosi statuaria della donna amata dal novello Alessandro.
I termini “bella” e “aurea”, che evocano rispettivamente in Appiano e Cassio Dione la presenza regale nel tempio di Venere, si trovano entrambi accostati a “nuda” (gymné) nella “Esortazione agli Elleni” (4, 50) di Clemente Alessandrino, apologeta cristiano che condanna la sensualità delle immagini di Afrodite (circa 160-215 d. C.).
La nuova qualifica di Capitolina concorda non solo con la collocazione museale della replica in Campidoglio, bensì con la dedica dell’originale voluta da Cesare nel tempio di Venere ai piedi dell’Arce, altura settentrionale del colle Capitolino, e col fatto che la maggior parte del tesoro della regina fosse stato consacrato da Ottaviano nelle tre celle del tempio di Giove, sulla cima dello stesso Capitolium».
Si può dire con esattezza quando è stata realizzata la nostra statua?
«È una copia della prima età imperiale: il plinto è rustico, per essere allogato in un basamento; poi si cominciò a rifinire i plinti con modanature, in modo da renderli autosufficienti: le statue venivano posate dove si voleva e facilmente rimosse, perché non più immobilizzate col piombo in un incasso.
Si pensa al tempo di Claudio (41-54 d.C.), il quale era figlio di Antonia Minore, figlia di Ottavia e di Marco Antonio: quest’ultimo aveva vissuto negli ultimi anni (37-30 a. C.) un’intensa unione con Cleopatra, da cui erano nati tre figli, destinati con Cesarione a un ambizioso, quanto vano progetto dinastico.
Il significato della Cleopatra Capitolina si è risolto con l’evidenza di un teorema, perché conseguente a una serie di apoteosi femminili nei regni ellenistici. L’Afrodite accosciata (nota da numerose copie) esaltava la sposa trace di Nicomede I re di Bitinia, a opera dell’artista locale Dedalsa (circa 260 a. C.). La cosiddetta Venere di Cirene, copia romana intorno al 130 d.C., recentemente restituita dall’Italia alla Libia, è una regina tolemaica: il delfino accanto alla gamba, ispirato all’essere marino che assisteva al prodigio della dea nascente dal mare, è una colonnetta scolpita in forma di delfino che divora un pesce, oggetto di arredo a sostegno dell’asciugatoio, anche qui deposto dopo l’uso. Segue l’Afrodite di Rodi, immagine di Cleopatra III, nipote e moglie prediletta (dal 140 a. C.) di Tolemeo VIII, che sintetizza elementi di Iside e di Afrodite. L’atto di reggere la chioma richiama pur sempre l’Anadiomene, ma la capigliatura disfatta conserva il garbo dei boccoli di Iside, evidenti in un ritratto della sovrana al Louvre e nella scena allegorica all’interno della Tazza Farnese al Museo Nazionale di Napoli, dove il sincretismo è tra Iside e Demetra. Nella scultura di Rodi l’episodio domestico è accertato dalla pisside, posata sul suolo asciutto, come pratico contenitore: per ogni aspetto, un precedente della nostra”.
In conclusione, la vicenda della statua dell’Esquilino insegna una cosa: la ricerca deve avere punti di riferimento e contare su conquiste consolidate, ma non può rinunciare a mettere in discussione alcune apparenti certezze...
“Nella Cleopatra Capitolina la qualità dell’opera agevola l’identificazione del soggetto, portandoci all’apprezzamento di un archetipo perduto del più alto significato storico ed estetico: la presa d’atto del capolavoro per parte della critica, passa da argomenti semplici ed evidenti, impliciti nella realtà del manufatto, riguardando la fisionomia del personaggio, la capigliatura, i simboli della dinastia e della tradizione religiosa egizia ed ellenica.
Una prima conseguenza è la conferma di validità per il criterio di indurre i prototipi dispersi dalle copie. A tale proposito è passato inavvertito il fatto che tra i nuovi originali resi disponibili negli ultimi decenni - da scavi, rinvenimenti subacquei o ricomposizioni nei depositi dei musei - molti dei soggetti risultavano già presenti nelle nostre collezioni come copie statuarie o riduzioni in tecniche diverse che ne rivelavano la fortuna. Tali testimoni secondari continuano a rappresentare una fonte per migliorare la conoscenza dell’opera recuperata in originale, quando questa non ci sia giunta nella sua completezza. Il Satiro in estasi - così denominato e atteso da più di un secolo attraverso innumerevoli gemme, rilievi, lucerne - ripescato in originale nel canale di Sicilia alla fine del Novecento, era mutilo e privo del corredo rituale: il tirso, la coppa e la spoglia di pantera gli sono stati restituiti in un disegno integrativo, grazie alla coerenza della documentazione.
Essenziale vantaggio è che gli originali ricomparsi moltiplicano le occasioni di lettura diretta dello stile dei maestri, con impensabili acquisizioni sulla cronologia relativa delle opere nel catalogo di un determinato artista, su eventuali, ulteriori attribuzioni, sul rapporto di dipendenza da istruttore a discepolo, infine sulle relazioni dei contemporanei. Qualche esempio, tra i bronzi: l’Apollo arcaico e le altre statue intatte del Pireo; Tideo e Anfiarao, due dei Sette e Tebe, dal mare di Riace; il Sofista dal naufragio di Porticello (Reggio Calabia); l’allegoria di Agone dall’Adriatico al Getty Museum in California; il Pugile delle Terme al Museo Nazionale Romano avvicinato a Lisippo; l’Atena di Arezzo restaurata per un’esposizione ora ad Atene; l’Afrodite rodia nascosta nella Vittoria di Brescia; Tito Quinzio Flaminino riconosciuto nel cosiddetto Principe ellenistico al Museo Nazionale Romano; Lucio Emilio Paolo dalle acque di Brindisi. Tra i marmi: la sala dei recenti ritrovamenti arcaici ad Atene, Museo del Ceramico; l’Eracle Melqart di Mozia; il frontone con l’Amazzonomachia portato a Roma nel tempio di Apollo Medico da Apollonia Pontica (Sozopol, Bulgaria), dove ornava il tempio di Apollo Iatrós; i frammenti della Nemesi di Agoracrito a Ramnunte, ricomposti da Giórgios Despínis; l’Eracle combattente, giunto nell’Urbe da un frontone di Tebe; la stele con la madre dolente da Pidna al Museo di Dion. E con questo rilievo, che pare la Madonna delle nuvole di Donatello, siamo nella Macedonia che ci ha rimesso in contatto con la pittura: tempere su marmo e affreschi dalle tombe, dove giocano i nomi di Nicomaco, Nicia, Filosseno e Teodoro di Samo.
All’ingresso del terzo millennio, prendiamo coscienza di questo premio insperato, proiettando a migliore sortita un’archeologia rinunciataria.
Abbiamo sotto gli occhi la massima espressione figurativa del Mediterraneo, in una varietà e ricchezza di motivi che la rendono più concreta di quanto abbia potuto contemplarla ogni altra generazione, dopo quelle che l’hanno prodotta o ne hanno fruito con la concentrazione delle opere a Roma e a Costantinopoli.
Incompletezza e approssimazione, che sembravano destinate a mortificare una “archeologia dell’arte” o una “storia archeologica dell’arte”, sono in larga parte superate. Quanto ormai ci unisce a quel mondo, basta a fare dell’antico una “storia dell’arte” senza complessi: il materiale disponibile è tale che il conoscitore vi si muove come tra le manifestazioni recenti.
La lettura viene facilitata dagli interventi di conservazione intesi a eminenti esiti conoscitivi. L’attività dei restauratori, di tecnici e specialisti di disparate discipline, è decisiva. Percorro nei saggi la campionatura delle nuove immissioni, divulgando la migliorata coscienza dell’eredità comune, raggiunta attraverso osservazioni che di volta in volta riguardano uno o più degli aspetti offerti dal caso: il ritrovamento, la tecnica di esecuzione, le analisi scientifiche, l’anatomia umana, la fisiologia e la fisionomia, l’iconografia nella storia e nel mito, lo stile. La convinzione nasce quando c’è convergenza nei risultati.
Oltre ai motivi accennati, indispensabile criterio finale è quello che nessuno osa proporre: il ritorno al buonsenso. Gesundes Urteil, “sano giudizio”: così Winckelmann reagiva all’erudizione da cui erano irretiti alla metà del Settecento i monumenti delle raccolte romane, invitando a guardarli con semplicità.
Ai nostri giorni il dio punico di Mozia (nella Sicilia occidentale), è stato inizialmente identificato con Icaro, o definito insistentemente Auriga: ma il fisico è di un culturista, con la massa muscolare propria dell’Eracle Melqart; un peso incongruo al governo della quadriga e tale da sfondare il pianale del carro agonistico. Per non parlare delle ali.
È sotto gli occhi di tutti in Roma che lo Spinario al Palazzo dei Conservatori è frutto della materiale giustapposizione, durante la tarda antichità, di due originali, diversi nella fusione, nelle proporzioni, nell’atteggiamento e nello stile: il corpo di un ragazzo (la replica marmorea Castellani, al British Museum, è completa della testa ellenistica) con il capo dell’Eros stante di Alcamene a Tespie (noto da una fonte negletta e da copie), nel quale i capelli scendono in modo incompatibile con l’inclinazione assunta nell’attuale montaggio; ma le schede delle mostre continuano a celebrare lo Spinario come creazione unitaria ed esemplare di un plasticatore del classicismo romano che sapeva aggiornare lo stile severo.
L’Eros (tipo Capitolino) innalzato da Lisippo nella stessa Tespie, era il logo dell’esposizione Eros al Colosseo (2007), dove veniva dichiarato in atto d’incordare l’arco: impossibile, perché l’estremità inferiore dell’arma non è trattenuta. Nessuno si era preoccupato di riportare in catalogo la letteratura sul tema, che da quasi un secolo descrive nel ragazzo il grazioso gesto (epico in Ulisse) di saggiare la flessibilità dell’arco.
La crisi della deontologia, preoccupante nella classe medica o nella torre di controllo di un aereoporto, fa danni meno vistosi in archeologia, ma offende l’impegno di chi si dedica alla ricerca con onestà intellettuale. Viviamo una favola di Esopo: la volpe che ha perduto la coda in una tagliola propone all’assemblea delle volpi che ciascuna si tagli la coda, perché" scomoda, eccetera: ma c’è chi scopre la mutilazione subita dalla proponente. Quanti non tengono dietro alle scoperte di originali nell’archeologia di campo, e alla proliferante “ricerca dei maestri”, si dedichino ad altri aspetti dell’antico: invece scrivono e predicano che non bisogna coltivare la Meisterforschung, diffondono sfiducia verso le conquiste che i nostri predecessori avevano divinato, e alcuni di noi incrementano con risultati incontrovertibili.
Chi abbandona l’evoluzione del metodo, fossilizza gli errori. Soluzioni casuali e provvisorie sono incancrenite dalla ripetizione su manuali e testi considerati autorevoli. Errori perpetuati con coerenza, passano per metodo e intercettano il processo scientifico.
Accanitamente viene impugnata la sequenza evolutiva di tre espressioni dell’estasi dionisiaca, pur giustificata dall’operare dei maggiori artefici nella storia tra Filippo II di Macedonia e gli eredi di Alessandro: il Satiro di Mazara, quale peribóetos di Prassitele (circa 360 a. C.); la Menade di Dresda, replica da Scopa (355-350); la Prassila, suonatrice ebbra, in un bronzetto e nelle copie da Lisippo (322-317). Si esibiscono fotografie eseguite con l’obiettivo grandangolare, che gonfiano il volto del Satiro prassitelico, per abbassarne la datazione. Si sostiene che figure tortili non esistevano prima del maturo ellenismo, ignorando monumenti documentati come gli acroteri del tempio di Epidauro (circa 380). La ricerca sul bronzo di Mazara, promossa dalla Soprintendenza di Trapani fin dalla fase del restauro, nel momento in cui ha portato allo scultore ateniese, si è cercato di liquidarla come "un incidente di percorso, che può accadere quando il protagonismo si sostituisce alla riflessione": intanto il danzatore estatico nel nome di Prassitele spopolava al Padiglione Italia dell’Expo 2005 in Giappone, veniva accolto al Louvre per la mostra Praxitèle (2006), e trovava conferma per l’attribuzione anche da parte di Bernard Andreae a Magonza (2009).
Lo storico dell’arte Roberto Longhi era accusato di non discutere alcune idee degli antagonisti: preferiva non trattare, pur riferendola in nota, un’ipotesi divenuta inconciliabile rispetto a nuove, rigorose constatazioni. Dobbiamo insistere a valorizzare la logica che apre una prospettiva verso sorprendenti orizzonti”.
Bibliografia essenziale:
• P. Moreno, “Scultura ellenistica”, I-II, Roma 1994, Libreria dello Stato, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato; Cleopatra III quale Iside Afrodite e Iside Demetra: II, p. 730-731, 746-752, fig. 901-904, 914-928
• P. Moreno, “Cleopatra Capitolina”, Messina 2009, Editinera

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