di Franco Calistri

PERUGIA - Non era necessario essere dotati di particolari doti divinatorie per prevedere che il diktat di Pomigliano e Mirafiori avrebbe fatto scuola. E così il direttivo di Federmeccanica, l'associazione cui fanno riferimento circa 12.000 aziende metalmeccaniche italiane e a cui, fino ad ieri, era iscritta anche Fiat, riunitosi a Milano, non solo ha espresso il suo plauso per il risultato raggiunto a Mirafiori ma ha auspicato che entro breve si vada al superamento della riforma del modello contrattuale concordato non più tardi dell'anno scorso, auspicando la possibilità che il contratto aziendale possa sostituire il contratto nazionale. Sempre secondo Federmeccanica l'alternatività tra le due opzioni, contratto aziendale o contratto nazionale, si rende necessaria per rispondere ad ulteriori esigenze di flessibilità sulla base di quello che succede nel resto del mondo.

Il disegno è compiuto, la morte del contratto nazionale è decretata. E' del tutto evidente che di qui a poco il contratto nazionale sarà svuotato di tutti i suoi contenuti e sostituito da contratti aziendali o territoriali, accentuando un tratto già presente nella riforma 2009, va ricordato non firmata dalla CGIL, che spingeva in direzione del decentramento delle relazioni contrattuali. Ormai se ne sono accorti tutti. Se ne è accorto anche un tipo come Calearo, ex deputato PD ora nel cosiddetto gruppo dei responsabili che appoggiano il governo Berlusconi, che ha testualmente dichiarato “ Tutte le grandi aziende seguiranno ben presto il metodo Marchionne. Il contratto nazionale non avrà più senso, prevarrà l'idea di un federalismo contrattuale legato al territorio e all'azienda. Confindustria è destinata a dimagrire a Roma". Il passo successivo, ed è già pronto un disegno di legge approntato dall'impagabile ministro Sacconi, sarà lo smantellamento della L.300/1970, dello Statuto dei lavoratori. Senza contratto nazionale di lavoro, o comunque con un vuoto simulacro, senza le tutele di legge previste dallo statuto dei lavoratori, ed in questi anni abbondantemente erose dall'iniziativa legislativa dei governi di centro destra, si perverrà ad una generale balcanizzazione dei rapporti contrattuali con i lavoratori, azienda per azienda, territorio per territorio, abbandonati al ricatto padronale. Un ritorno indietro di decenni, agli albori del sindacalismo: parole d'ordine del vecchio sindacalismo ottocentesco come “ad ugual lavoro, uguale salario” torneranno ad echeggiare come pericolosi slogan sovversivi, di fatto si tornerà, surrettiziamente, alle vecchie gabbie salariali, con l'aggravante che questa volta ad essere ingabbiati non saranno solo i salari ma anche i diritti.

La cosa che più stupisce è il silenzio e la complicità di Cisl ed Uil che pensano attraverso la compressione dei diritti, delle tutele del lavoro di attivare investimenti e quindi dare lavoro e benessere. Lo ha ripetuto Bonanni, con quella sua aria di D'Artagnan vent'anni dopo, “senza gli investimenti non c'è lavoro e senza lavoro non c'è benessere”. Possibile essere così ciechi da non capire a natura diseguale e distorsiva dello scambio che viene proposto? Come non poco stupore desta l'ambigua posizione del Partito Democratico che afferma in ogni occasione di volere parlare di lavoro e non dei festini di Arcore e quando ne ha l'occasione tace o farfuglia parole incomprensibili. Per questo lo sciopero del 28 assume una importanza vitale. Non è lo sciopero della Fiom, è lo sciopero del lavoro che si veda attaccato e minacciato nei suoi diritti e nelle sue tutele fondamentali


 

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