L’irruzione del conflitto sociale e la deriva mercatista del Pd
di Dino Greco (Liberazione del 12 gennaio 2011)
Poiché l’ipocrisia è sempre di tutti i mali quello peggiore, converrà venire in chiaro su ciò che la vicenda Fiat rivela della mutazione che ha compiutamente trasformato il partito di Bersani in una formazione liberale sempre più labilmente contaminata da reminiscenze democratiche. Sotto il reiterato invito che il Pd rivolge alla Fiom di rispettare l’esito del referendum/ricatto di cui i democratici immaginano e - diciamolo con chiarezza - auspicano un esito favorevole all’azienda, si scorgono, senza bisogno di ricorrere a sofisticate dietrologie, due tesi precise. La prima è che il piano industriale della Fiat, del quale pressoché nulla si conosce, va bene ugualmente, perché la minaccia di smobilizzo fa salire la paura a 90 e induce a fare finta che il fiele contenuto nel bicchiere sia vino di qualità; la seconda è che l’oggetto intrinseco dell’accordo, le condizioni imposte da Marchionne non siano, come con tutta evidenza sono, insopportabilmente peggiorative delle condizioni di lavoro e altrettanto lesive di diritti individuali e collettivi - una sorta di spada di Brenno che l’Ad della Fiat cala con sprezzante arroganza sul piatto della bilancia - ma un provvisorio ripiegamento che potrà essere in seguito superato, magari attraverso una legge sulla rappresentanza. Che è esattamente quanto fino ad ora - da parte del centrosinistra come del centrodestra - si è scrupolosamente voluto evitare, ritenendo l’uno e l’altro schieramento alquanto pericoloso riconoscere la sovranità dei lavoratori sull’attività contrattuale di chi presume di rappresentarli. Poi c’è anche di peggio perché, con buona pace di Stefano Fassina, nel Pd tengono banco orientamenti come quello di Veltroni, o di Fassino, o di Chiamparino e via sbaraccando: orientamenti apertamente filoaziendali, con la sola variante di considerare casomai opportuno che chi si ostina a non capire la modernità e i vincoli della globalizzazione (la Fiom) non sia escluso dalla rappresentanza sindacale aziendale. Ma, anche in questo caso, l’invito non è rivolto al management, o al padrone, o al governo perché si impegnino ad impedire una palese vulnerazione democratica, bensì al sindacato di Landini che dovrebbe disarmare e aderire - sia pure dissentendo e recalcitrando - al sistema neocorporativo di relazioni industriali che la Fiat intende solennemente instaurare.
Sicché la richiesta di non sottrarsi all’esito del plebiscito imposto da Marchionne suona, inequivocabilmente, come una pressione esercitata sui lavoratori affinché si rassegnino a passare sotto le forche caudine e votino “sì”.
Tuttavia, la rivolta operaia contro la Fiat ha già avuto un merito formidabile: quello di riportare al centro dell’attenzione generale la verità dei rapporti sociali, per gran tempo rimossa dalla cortina fumogena di una dialettica politica congelata nel Palazzo e ripiegata su se stessa, fra una maggioranza ed un’opposizione di “sua maestà”, avvinte in un gioco di specchi dove mai nulla succede davvero, perché tutto accade fuori dai riflettori e fuori dalla portata delle sbiadite controfigure che si agitano convulsamente su quel proscenio.
Il fatto è che proprio mentre costoro hanno cercato di inscrivere la contesa politica in un’area neutra, artificialmente e consensualmente mondata del conflitto sociale, questo ha fatto irruzione nelle quinte di una rappresentazione fraudolenta che dà per estinte le classi e - in modo esplicito o surrettizio - intesta il progresso al capitale, solo orizzonte pensabile, dove i progetti politici paiono copie intercambiabili del tutto interne al medesimo paradigma.
L’irriducibilità dei metalmeccanici della Cgil a questo disegno di ruvida involuzione reazionaria, ha bruscamente interrotto lo stucchevole minuetto, e la lotta dei lavoratori si è saldata, non per giustapposizione, ma per organica connessione, al movimento degli studenti, dei precari, dei migranti, portando alla luce la natura crudelmente classista e autoritaria del potere, quello reale, incardinato nei rapporti di produzione, pedissequamente servito, come mai accaduto prima in epoca repubblicana, dalla casta al governo.
La contraddizione senza scampo in cui è imprigionata l’opposizione parlamentare è che, proprio mentre si appalesa nel modo più duro la dittatura dell’impresa, essa si smarrisce e rincula, aumentando la distanza che la separa dagli strati sociali che dalla sferza della crisi sono più colpiti.
Dai primordi fino a trent’anni fa, la sinistra aveva costruito la propria identità, il proprio profilo culturale, strategico e programmatico su un’idea di fondo: che sviluppo e diritti formassero una coppia indivisibile, camminassero insieme e solo dall’indissolubilità di questo sodalizio derivasse il progresso sociale. Questa convinzione si è via via attenuata fino a dissolversi completamente, per approdare, più o meno acriticamente, nei dintorni dell’ideologia mercatista che consegna all’impresa capitalistica la funzione di motore e di guida della società. Senza intralci politici sociali costituzionali ambientali che ne limitino o condizionino funzionamento e direzione di marcia.
Provi a chiedersi, il Pd, per quale ragione alla crisi di consenso del più screditato dei governi di centrodestra corrisponda anche il proprio declino.

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